Dahlonega, un borgo sperduto sulle Blue Ridge Mountains, a nord di Atlanta. Già parte della nazione Cherokee, la zona si è trasformata in una delle capitali della corsa all’oro poco prima della metà dell’Ottocento. A parte la drammatica cacciata in massa degli abitanti nativi, rimpiazzati da cercatori e avventurieri provenienti da ogni angolo del Paese, da queste parti da allora non è accaduto pressoché nulla di significativo. Eppure, è in questa contea della Georgia settentrionale che termina il viaggio che Luke Mogelson ha compiuto attraverso l’anima inquieta dell’America e che è ora proposto ai lettori italiani tra i titoli di debutto della Orville Press, nuovo marchio editoriale ideato da Matteo Codignola e sostenuto da Garzanti: La tempesta è qui (Traduzione di Francesco Pacifico, pp. 442, euro 22).

GIÀ CORRISPONDENTE di guerra dall’Iraq e dall’Afghanistan e dal 2013 tra i principali inviati del New Yorker, Mogelson, classe 1982, nativo di St. Louis, nel Missouri, ricostruisce le tappe che hanno condotto il 6 gennaio del 2021 all’assalto dei sostenitori di Donald Trump a Capitol Hill, la sede del Congresso degli Stati Uniti, per contestare il risultato delle elezioni presidenziali e impedire la proclamazione del democratico Joe Biden come 46° leader della Casa Bianca. Il reporter non si limita a raccontare una delle giornate più angosciose nella storia recente della democrazia americana, vicenda che ha vissuto in mezzo alla folla accorsa per le strade di Washington in seguito agli appelli di Trump, ma ripercorre idealmente la traiettoria seguita da quei manifestanti e, verrebbe da dire, dalle loro idee, a partire dall’intero Paese e indagandone le radici culturali nel tempo lungo della politica e dell’evoluzione della società americana.

Perciò, quando, alla fine del viaggio, nel gennaio del 2022, Mogelson incontra in uno dei ristoranti per turisti di Dahlonega Chester Doles, ex mago imperiale del Ku Klux Klan, un passato in molti dei più importanti gruppi neonazisti della Georgia, ma anche una figura di rilievo della scena estremista nazionale, il segnale che intende comunicare è netto. L’uomo, che indossa una maglietta con la scritta «We the people» e mostra sulle mani le tracce di vecchi tatuaggi resi illeggibili da quelli nuovi, si è infatti candidato come commissario della Contea locale. Una tendenza seguita da altri radicali di destra che hanno deciso di concorrere per incarichi elettivi nei comitati scolastici, come supervisori nelle contee, qualcuno perfino al posto di governatore.

«La discesa in politica di Doles era spia di una tendenza. In tutto il Paese gli estremisti di destra, dopo averlo attaccato per due anni, avevano deciso di partecipare al processo democratico», sottolinea Mogelson, aggiungendo come il segnale di «occupare il terreno» anche su questo piano, e all’interno del Partito Repubblicano, è arrivato da personaggi di spicco dell’apparato trumpiano, nomi come quelli dell’ex ideologo, e responsabile della campagna presidenziale del 2016, Steve Bannon e del generale Michael Flynn, già consigliere per la sicurezza nazionale di Trump alla Casa Bianca. In virtù delle posizioni assunte dal tycoon newyorkese, inizialmente durante le primarie, quindi nei suoi quattro anni di mandato, infine nella campagna ininterrotta per denunciare come una «frode» la sua sconfitta ad opera di Biden, l’agenda politica della destra radicale e quella dei repubblicani sono ormai sincronizzate.

LE TESI DELIRANTI che provengono da questo mondo sono ormai parte del dibattito mainstream nel cosiddetto mondo conservatore. Quando giunge il momento del commiato tra il reporter e il suo interlocutore suprematista, Mogelson gli chiede se una nuova candidatura di Trump alle presidenziali del 2024 potrebbe innescare «eventi simili a quelli descritti in The Turner Diaries» (un romanzo scritto da un leader neonazi e considerato come la Bibbia di tutto questo ambiente che annuncia una «resa dei conti» razziale nel Paese, la distruzione dei simboli della democrazia e un nuovo Olocausto), la risposta non lascia spazio a interpretazioni di sorta: «Sarebbe un punto di rottura. Credo che l’America si balcanizzerebbe. Ma probabilmente solo quando il sangue per le strade ci arriverà alle ginocchia».

L’approdo, e i sinistri presagi di sventura che l’autore di La tempesta è qui lascia proferire ai molti protagonisti di questo mondo ribollente di rabbia e risentimento che ha incrociato per le strade d’America, sembrano suggerire come il Paese non si sia affatto lasciato questa minaccia alle spalle. Ma la lezione più profonda che si può trarre da questa splendida e inquietante inchiesta è che molti segnali avrebbero dovuto consentire di vederla arrivare. Per quanto stupito dalla radicalità, e pericolosità assunta dal fenomeno, Mogelson ne traccia una sorta di sintetico album genealogico, evidenziando in particolare gli elementi che hanno in qualche modo contribuito ad accelerare processi da tempo latenti.

Da un lato, la pandemia da Covid-19 e il modo in cui negli ambienti della destra paramilitare e estremista siano state vissute rabbiosamente ogni sorta di restrizioni. Dall’altro, un contesto, quello temporale che ha visto la massima diffusione del virus nel Paese, durante il quale oltre nove milioni di americani hanno perso il lavoro. Sul fondo, il diffondersi in modo sempre più capillare, anche grazie alle nuove forme di comunicazione digitale, delle teorie complottiste che, come ricorda Mogelson, «da sempre aiutano a razionalizzare il malcontento dei bianchi e chiunque voglia sfruttare quel malcontento per il proprio tornaconto politico o finanziario sa a cosa attingere».

SE DOPO LA FINE della Guerra fredda gli estremisti di destra che si pensavano come parte della crociata anticomunista nella quale era impegnato l’intero Paese avrebbero volto il loro rancore verso lo stesso potere federale, reo del «tradimento» del Vietnam, dell’asservimento al Nuovo Ordine Mondiale, di aver realizzato, almeno sulla carta, la fine della segregazione razziale, con la discesa in campo di Donald Trump, supportato dagli strateghi dell’Alt-right e dall’ideologia del suprematismo bianco digitale, l’orizzonte si è in qualche modo capovolto. Alla Casa Bianca è arrivato un «patriota» e una figura nel cui nome serrare le fila e condurre una battaglia unitaria, malgrado le differenze.

Così, assaltando Capitol Hill. quella folla grida: «La legge siamo noi, il popolo». Accanto alla statua del presidente Grant hanno montato una forca, pronti ad eseguire le sentenze di morte che hanno già pronunciato contro i traditori del Congresso. Da un lato un ex presidente che grida alla «frode» dagli schermi televisivi, dall’altro una folla pronta alla giustizia sommaria per tradurre in realtà quelle parole minacciose. Chi pensa di combattere per il futuro dell’America ci tiene a far sapere che la battaglia è appena cominciata.