Su Internet non si trovano solo recensioni di ristoranti e hotel, ma anche di ospedali. Del «Sandro Pertini» di Roma, l’utente Fabrizio Severi racconta che «A causa della chiusura dell’ospedale di Tivoli il Pronto soccorso è super affollato. I medici ed infermieri sono ammirevoli nel gestire una situazione drammatica». Ma arrivano anche testimonianze come quella inviata dal telefonino di Roberto Romani sempre riguardo al «Pertini»: «Sono già 6 ore che mi hanno messo sul lettino e ancora non mi chiamano. Mandato qui dal cardiologo che mi ha diagnosticato un infarto». Sono passati due mesi dal rogo di Tivoli costato la vita a tre pazienti. Da allora, per chi vive nei sobborghi est della Capitale il pronto soccorso del Pertini è l’unico raggiungibile da Tivoli in mezz’ora di macchina nel traffico della via Tiburtina secondo Google Maps. Fa riferimento al «Pertini» un’area ampia e popolosa di Roma, a cui ora si aggiungono quelli dell’area di Tivoli e Guidonia (terzo comune del Lazio). Non stupisce nessuno che oggi il pronto soccorso scoppi perché scoppiava anche prima. Il «Pertini» è uno dei tre ospedali pubblici della Asl Rm2, la più grande di Italia con 1,3 milioni di assistiti e 3300 infermieri, che copre tutto il quadrante sudorientale della Capitale. 

Non è difficile capire perché la struttura non regga l’urto: con 400 posti letto è un ospedale di medie dimensioni, ma per numero di accessi al pronto soccorso nel Lazio lo superano solo colossi come l’«Umberto I», il «Gemelli» e il Policlinico Casilino. Dopo il rogo di Tivoli forse nemmeno loro. 

Come testimoniano gli stessi utenti, le condizioni di lavoro degli infermieri del Pronto Soccorso del Pertini sono un concentrato di tutti i mali della sanità pubblica italiana. «A dividersi i tre turni giornalieri sono attualmente 63 infermieri» spiega Carlo Torricella, infermiere e sindacalista della sigla sindacale autonoma NurSind. «Si tratta in gran parte di donne su cui ricadono anche i carichi familiari, tra figli piccoli e genitori anziani da accudire. Quindici oggi sono in maternità o godono di altri congedi, ma l’Asl non li ha sostituiti. Dunque il reparto è costantemente sotto-organico». Quando inizia a lavorare qui, ogni professionista sa che gli verranno chieste almeno venti ore di «straordinari» al mese, raccontano i lavoratori. Cioè oltre duecento ore l’anno – potrebbe andare persino peggio perché nella rianimazione del Pertini c’è chi ne accumula oltre quattrocento. Senza queste ore in più il pronto soccorso semplicemente non ce la fa a smaltire gli accessi e gli straordinari devono essere conteggiati già al momento di programmare di turni. Il contratto infermieristico però prevede che ogni lavoratrice e lavoratore faccia «al massimo» 180 ore: ciò che viene richiesto a tutti gli infermieri, dunque, è oltre la soglia che non dovrebbe essere superata da nessuno. Oltre al danno, non mancano le beffe. I soldi per lo straordinario vengono dal fondo per il bonus produttività, quindi sono soldi che spettano già ai lavoratori anche senza straordinari. In più, dopo l’incendio al Tivoli, per il sovraccarico di lavoro ai medici è stato garantito un aumento di retribuzione. Agli infermieri, il cui stipendio di ingresso è di circa 1450 euro al mese, no.

Da alcune settimane però le infermiere e gli infermieri del Pertini hanno deciso che così non si può andare avanti e che di straordinari – o «compensazioni», come si chiamano da contratto – non ne accettano più, mettendo in ginocchio l’ospedale. D’altronde, il rifiuto degli straordinari sistematici non dovrebbe essere considerata una forma di protesta, ma una scrupolosa applicazione del codice deontologico dell’infermiere, che all’articolo 49 prevede il rifiuto della compensazione «quando sia abituale o ricorrente». Il pronto soccorso però non chiuderà, perché infermieri e infermiere gli straordinari li devo fare lo stesso: per ogni turno in più l’ospedale fa un «ordine di servizio» a cui per legge non ci si può sottrarre. Ma è un’extrema ratio, e una dichiarazione di sconfitta per chi dovrebbe gestire il lavoro sanitario.

Gli infermieri – per contratto e per cultura professionale – sono abituati a condizioni di lavoro al limite. Ad esempio, non possono abbandonare il posto di lavoro senza il «cambio a vista» di un altro collega già arrivato. In sua assenza smontare è impossibile, e poco importa se c’è un figlio piccolo che aspetta a scuola o un familiare bisognoso di cure. «Programmare la propria vita così diventa impossibile» racconta Torricella. «C’è chi, per tornare a casa, ha dovuto minacciare di chiamare le forze dell’ordine, costretto a scegliere tra la denuncia per l’abbandono del turno o quella per l’abbandono del minore». Quando proprio non si trova chi possa coprire il turno, bisogna sorteggiare chi invece delle solite otto ore dovrà farne sedici di seguito. «Non mi capitava da quando lo facevamo a scuola per le interrogazioni» confessa imbarazzata uno degli infermieri dietro anonimato.

Chi lavora nel pronto soccorso del «Pertini» – ma la stessa situazione si ripete in moltissimi ospedali d’Italia – non può ricorrere nemmeno alla forma di protesta più classica, lo sciopero, perché il personale è già al di sotto della soglia da garantire nei servizi essenziali anche in queste occasioni.

La direzione non contesta i buchi di organico. Secondo il «Piano integrato di attività e Organizzazione 2023-2025» redatto dal direttore generale, rispetto al fabbisogno all’ospedale Pertini mancano 63 infermieri e 43 operatori socio-sanitari (Oss). Al manifesto, il direttore sanitario della Asl assicura che c’è un concorso quasi ultimato e che venti nuovi assunti (per tutta la Asl) arriveranno a breve. Ma in pochi credono che questa goccia nel mare sia davvero la soluzione. 

Come soluzione tampone, la Asl non può ricorrere nemmeno alle costose cooperative che forniscono medici e infermieri a partita Iva. Le casse della sanità laziale sono disastrate, otto direttori generali sono indagati per falso in bilancio e sotto inchiesta ci sono anche la Asl Roma 2 e l’ospedale di Tivoli. L’unica, risicatissima iniezione di personale si può fare sottraendo gli infermieri al «territorio», cioè agli ambulatori pubblici, ma è una coperta già cortissima. Poi, per chi non accetta i turni coatti, ci sono le punizioni ufficiose. «Chi non garantisce la disponibilità, magari perché ha un genitore anziano o un figlio da accudire, viene assegnato alla sala dei «codici rossi», dove l’impegno e la responsabilità sono massimi, per vari giorni di seguito» racconta un’altra infermiera del Pertini. 

Il pronto soccorso di Tivoli era prevista per la fine di gennaio. Avrebbe potuto dare un po’ di respiro alle altre strutture del territorio ma solo pochi giorni fa è stato dissequestrato. Secondo l’ultimo annuncio della Asl riaprirà (forse) il 25 marzo in forma provvisoria. «La situazione è davvero grave e si ripercuote direttamente sull’utenza – dicono i sindacati – innalzando il rischio di morte per tutte le patologie tempo dipendenti». E l’emergenza continua.