«Negli altri ambiti della nostra vita c’è una sorta di diritto all’oblio: ciò che si diviene si impone rispetto a ciò che si era un tempo. Sui social network questo diritto non c’è più». Con queste parole Laurent Cantet, regista e sceneggiatore francese, presenta il suo film Arthur Rambo, attualmente nelle sale italiane. Ispirato alla vicenda che ha coinvolto alcuni anni fa il giornalista e opinionista Mehdi Meklat, narra di uno sdoppiamento: da un lato c’è il giovane scrittore di successo Karim D., dall’altro il suo alter ego su twitter chiamato, per l’appunto, Arthur Rambo. Al primo corrisponde la coscienza di una famiglia migrante, la complessa ma orgogliosa lotta per il riconoscimento, al secondo la provocazione contro tutto e tutti, lo sguardo cinico che si spinge sempre più in là per ottenere followers. La questione sociale è centrale, come lo è spesso nei film di Cantet, che anche stavolta indaga la mentalità e i luoghi delle banlieue parigine nelle loro ricchezze e contraddizioni. Abbiamo parlato con il regista delle numerose riflessioni sull’attualità contenute in Arthur Rambo.

Nel film ci sono diversi modi di rapportarsi ai social network a seconda dell’età e della posizione sociale. Quali sono i suoi sentimenti nei confronti delle piattaforme?

Avevo già iniziato a riflettere sul loro ruolo nel mio film precedente, L’atelier, ma ho avuto l’impressione che valesse la pena di guardare al fenomeno più da vicino, considerato che spesso utilizziamo i social senza un vero ragionamento. La scrittura poi ha un ruolo centrale: quando il protagonista scrive il libro su sua madre, una donna migrante, è un risultato per il quale ha lavorato, pesando ogni parola. Al contrario, i messaggi su twitter li scrive in pochi secondi, senza rendersi conto che quei testi hanno un peso. Il punto è che per esistere ed essere seguiti su queste piattaforme, bisogna diventare il più provocatori possibile: il senso di ciò che Karim D. scrive, scompare dietro la voglia di ottenere like. Quand’ero più giovane c’erano i punk che detestavano la società in cui vivevano, non provocavano per piacere a qualcuno, ma per sputare sulla faccia del mondo. Quando Karim D. scrive i suoi tweet invece, lo fa perché vorrebbe essere amato.

Un’altra questione centrale è quella dell’identità, non solo per l’esistenza dell’alter ego ma perché non comprendiamo mai fino in fondo chi è Karim D. È un punto che l’ha attratta della vicenda di Mehdi Meklat?

Mi interessava che ci fossero delle piste per comprendere i gesti del protagonista, ma anche che lui diventasse un nemico ai suoi propri occhi in un cammino verso la responsabilità. Sicuramente la vicenda di Meklat mi ha molto colpito, ho letto diversi articoli su di lui che raccontavano di un uomo brillante e capace di essere molto chiaro nell’esposizione di ciò che gli stava a cuore. Poi furono scoperti i tweet, e allora ho avvertito una vertigine: come possono queste due identità riunirsi in un’unica persona? Forse lo sdoppiamento rispecchia da una parte un giovane uomo intelligente e dall’altra un ragazzino che non ha ancora la maturità sufficiente per dominare tutto ciò che scrive. C’è poi la questione sociale, perché il protagonista vorrebbe allontanarsi dalla periferia per abbracciare il mondo della letteratura, in cui non è al suo posto. È un posto che va cercato, costruito persino. I social in qualche modo riportano alla luce questa frattura, e lo ricollegano alla sua cultura d’origine, perché su twitter Karim si esprime come farebbe con i suoi amici della banlieue. Per questo il fratello più giovane, Farhid, rimanda il protagonista a una rabbia che era anche la sua un tempo. Lui prende i tweet di Arthur Rambo alla lettera, non ha la capacità di leggerli con ironia come Karim si aspettava.

È di pochi giorni fa la notizia dell’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk, con la promessa di eliminare la censura. Cosa ne pensa?

Non credo nella censura e nel ferreo controllo dei social, ciò che mi preoccupa maggiormente infatti non è la violenza, ma la semplificazione del pensiero e il suo essere ristretto nel limite di 280 caratteri. Sono operazioni che hanno delle conseguenze anche in altri ambiti. Non credo che Elon Musk abbia voglia di complessità, né che desideri liberare l’espressione degli utenti. Penso piuttosto che il punto sia continuare a far girare la macchina a piena velocità per trarne guadagno. Più la parola è libera e più il meccanismo funziona, perché si arrivano a dire cose che superano il limite e che generano interesse. Se poi Musk ridarà la parola a Trump, sarà inevitabilmente una scelta politica.