Tra i motivi per cui il referendum cannabis è stato dichiarato inammissibile c’è la violazione degli obblighi internazionali della Repubblica italiana derivanti dalle Convenzioni Onu.

IL PRIMO DOCUMENTO sulle sostanze psicotrope fu adottato nel 1961, all’apice della Guerra Fredda. Sebbene volesse rendere disponibili piante e derivati psicoattivi per fini medico-scientifici, da allora è stato usato per giustificare la militarizzazione progressiva del controllo nazionale e internazionale degli stupefacenti, cancellando quasi totalmente la parte relativa all’accesso a medicine essenziali.

Le altre Convenzioni, del 1971 e 1988, furono adottate in un contesto geopolitico in cui, a fronte di conflitti armati spesso finanziati da traffici illeciti, la «guerra alla droga» divenne una guerra alle persone che violava diritti umani in tutto il mondo. Da una decina d’anni, anche in reazione alle gestioni di Pino Arlacchi e Antonio Maria Costa dell’Ufficio Onu per la droga e il crimine, tanto le agenzie delle Nazioni unite quanto decine di Stati Membri hanno imboccato una strada diversa: quella della flessibilità e interpretazione.

IL GIUDIZIO di inammissibilità pare scritto nelle ore più buie della «guerra alla droga». Pur avendo riconosciuto (a malincuore) che il quesito si riferiva anche alla cannabis e aver confermato la differenza tra “piante” e “sostanze”, la sentenza della Consulta insiste con gli obblighi internazionali. A niente sono valse le molte pagine delle memorie che hanno contestualizzato l’attuale regime di «controllo internazionale delle droghe» ricordando che Uruguay, Canada, Malta e 19 Stati Usa hanno radicalmente modificato le proprie leggi sulla cannabis senza uscire dai documenti internazionali. Per i giudici della Consulta l’Italia doveva esser difesa dalla normativa risultante dal referendum perché ci avrebbe fatto diventare uno Stato paria.

ARCHIVIATI i Governi Berlusconi, l’Italia è stata uno degli agenti di questo mutato scenario internazionale accompagnando un approccio di segno diametralmente opposto a quanto rilanciato con la prima sessione speciale dell’Onu sulle droghe (Ungass) del 1998. Dal 2013 i governi italiani si sono conformati alle posizioni comuni europee mediando con i contrari – convincendo la Cina a non ri-tabellare la ketamina! – contribuendo significativamente alla buona riuscita della seconda Ungass.

Ed è proprio nel 2016 che al Palazzo di Vetro si è codificato politicamente questo nuovo approccio nella sessione speciale dell’Onu sulle droghe che ha riaffermato che le Convenzioni prevedono flessibilità interpretative per adeguarsi al contesto nazionale prevalente. Oltre al mondo è cambiata anche la nostra legge sulle droghe: referendum, decreti incostituzionali, sentenze della Consulta, decreti legge, sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale stessa, oltre a decine di assoluzioni anche recentissime, hanno progressivamente cambiato l’applicazione di norme che, a seguito della sentenza d’inammissibilità, corrono il rischio di non esser più modificabili per come previsto dalla Costituzione che consente al popolo sovrano di abrogare leggi o parti di esse. I giudici dedicano un terzo della sentenza a ricostruire il testo attuale della legge ma non riservano una riga alle recenti dinamiche del «sistema internazionale di controllo delle droghe».

La legge 309/90 non autorizza la ratifica della Convenzione del 1988 né la incorpora. La Consulta estende la previsione inserita nella Costituzione, esclusivamente per motivi tecnico-giuridici, anche a quelle norme che applicano impegni derivanti da Trattati internazionali.

NEL DEFINIRE IL QUESITO è stata data prioritaria attenzione alle Convenzioni. Gli obblighi internazionali di vietare le coltivazioni di quanto inserito nelle tabelle per fini diversi da quelli medici o scientifici sono assolti nel Testo Unico dall’art. 26, non toccato dal referendum, che vieta le coltivazione (a eccezione della canapa industriale) per fini diversi da quelli medico-scientifici (autorizzabili dal Ministero della Salute). L’art. 28 rinvia «alle sanzioni penali e amministrative stabilite per la fabbricazione illecita delle sostanze stesse» chiunque coltivi in assenza di autorizzazione – «fabbricazione» e non «coltivazione». Il quesito non toccava questi articoli consentendo di colpire penalmente la produzione di stupefacenti per quantità e industriosità a uso non personale. Convenzioni quindi rispettate.

15 Aprile 2019, Un mercato di cannabis a Los Angeles Foto Ap

L’ELIMINAZIONE della parola «coltiva» dal comma 1 dell’art. 73, in una lettura sistematica e vincolata al principio di tipicità, si risolveva nella depenalizzazione della sola coltivazione a uso personale di un numero limitato di quanto nelle tabelle I e II (tra cui foglia di coca e papavero) lasciando penalizzate le condotte necessarie a produrre sostanze stupefacenti (eroina, cocaina ma anche hashish) anche se destinate a uso personale. Anche la mera detenzione di piante, foglie e fiori, se a fini di spaccio, sarebbe rimasta sanzionabile penalmente.

La rimozione dal comma 4 dell’art. 73 delle pene detentive per le condotte relative alle “droghe leggere” (tabelle II e IV) restava nell’ambito degli obblighi internazionali perché in linea con l’orientamento prevalente dell’Onu a partire da quanto affermato l’anno scorso dalla Giunta internazionale per gli stupefacenti (che sovrintende l’applicazione delle Convenzioni) che ha chiarito che «per le convenzioni solo i reati “gravi” dovrebbero essere passibili della pena dell’incarcerazione». Già nel ‘90 nonostante la cannabis fosse nella tabella IV (della convenzione del ‘61) relativa a «sostanze più pericolose e soggette a controllo più rigido», l’Italia interpretò flessibilmente le Convenzioni colpendo le condotte correlate con sanzioni minori.

Nel 2020, infine, la Commissione droghe dell’Onu, col voto favorevole dell’Italia, ha rimosso la cannabis dalla summenzionata tabella IV. Il referendum adeguava la legge del 1990 alle mutate condizioni internazionali senza violare obblighi o Convenzioni.