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Campania, la filiera tessile sulle spalle della comunità bengalese

Campania, la filiera tessile sulle spalle della comunità bengalese

Immigrazione Le inchieste hanno raccontato il meccanismo di sfruttamento

Pubblicato 4 mesi faEdizione del 5 giugno 2024

Anno 2014, comune di Sant’Antimo, provincia a nord di Napoli. Il movimento 3febbraio raccoglie le denunce di una ventina di lavoratori bengalesi che sono entrati in Italia, tramite il decreto flussi, sulla base della richiesta di un imprenditore, anch’egli del Bangladesh. L’uomo gestisce in Campania piccole fabbriche tessili, pezzi di una filiera che conduce anche ad alcuni marchi dell’alta moda nazionale.

Raccontano di aver pagato tra 10mila e 15mila euro a un’organizzazione di intermediari che fa riferimento all’imprenditore tessile e che è attiva nel loro paese di origine. L’uomo in Italia li sfrutta con paghe da fame e orari da seconda rivoluzione industriale. La direzione distrettuale antimafia avvia un’indagine, che si concluderà nel 2017 con una condanna in primo grado a 8 anni. Giorgia Meloni nel 2014 era già presidente di Fratelli d’Italia.

Ora, da presidente del consiglio, scopre che sì, nel meccanismo di ingresso si annidano anche imbrogli, truffe, criminalità organizzata. Cita proprio il caso del Bangladesh, paese dal quale provengono circa 20mila stranieri oggi residenti in Campania e dislocati prevalentemente nell’hinterland a nord di Napoli e nei paesi vesuviani. A Palma Campania, per esempio, dove la capillare presenza dei bengalesi (3.500 persone) indusse Nello Donnarumma, il sindaco eletto con Fdi nel 2018, poi sospeso dal Prefetto perché coinvolto in un’inchiesta giudiziaria (ma tornato in sella), ad adottare iniziative come l’esame di italiano per chi volesse aprire un negozio.

Nel mirino la comunità bengalese arrivata nei comuni vesuviani negli anni Novanta, attirati dai costi bassi degli alloggi e dalle sartorie. Producevano capi d’abbigliamento per i marchi della moda, i proprietari dei laboratori erano italiani e gli intermediari con le griffe pure. Poi però hanno fiutato il business anche gli imprenditori del Bangladesh che hanno aperto sartorie in proprio, a favorirli proprio la Bossi-Fini: era più semplice importare manodopera dalle loro zone di origine rispetto a un italiano.

La concorrenza ha iniziato a infastidire i locali. «La vicenda del 2014 che seguimmo come associazione testimonia che certamente può esserci un interesse criminale nella gestione degli ingressi dei migranti – commenta Gianluca Petruzzo, referente di 3febbraio – ma è il meccanismo in sé a favorire le infiltrazioni e le intermediazioni malavitose. Il decreto flussi prevede che un datore di lavoro inoltri richiesta per un dipendente che non ha mai visto in volto e chieda che entri in Italia con una promessa di contratto. Non è infrequente che la chiamata avvenga in cambio di denaro, su intermediazione di persone del paese di ingresso o di uscita, che incassano soldi». Morshed, rappresentante dei bengalesi per la Cgil in Campania: «Lavoriamo molto e non creiamo problemi. Siamo tanti? Veniamo perché c’è bisogno di lavoratori e perché nel nostro paese ci sono difficoltà».

Gli risulta che ci sia una organizzazione che gestisce gli ingressi dei suoi connazionali in Campania in cambio di denaro? «Ci possono essere stati certamente alcuni episodi, ma non si può dire che noi bengalesi arriviamo in Campania perché ci sta una organizzazione criminale». Mimma D’Amico e Virginia Crovella, attiviste del centro sociale di Caserta Ex Canapificio, citano il rapporto flussi 2024 di Ero Straniero: «Nel click day di marzo 2023, a fronte di 74.105 posti disponibili, solo 17.435 sono state le domande finalizzate con la sottoscrizione del contratto e la richiesta di permesso di soggiorno per lavoro. Il 23,5%. Il resto delle persone che fine fa? Scivola in una condizione di irregolarità, di precarietà, di ricattabilità».

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