Non è certo il vero match, giusto un rapido scambio di colpi di riscaldamento. Ma le future combattenti incrociano i guantoni e l’attenzione generale è desta. Elly Schlein ha il vantaggio della replica e sceglie di battersi su un terreno facile, la sanità. Per chiunque governi è l’argomento più infido e chi governa è Giorgia Meloni. La segretaria del Partito democratico va giù diretta: lo sfacelo è generale, le liste d’attesa eterne, «qui bisogna solo sperare che la malattia corra meno delle liste». Però il tetto sulle assunzioni resta fisso e di un piano straordinario non c’è traccia.

SCHLEIN PROVA ad anticipare il prevedibile colpo: «Non mi risponda chiedendo perché noi non lo abbiamo fatto quando eravamo al governo. Intanto io non c’ero e comunque adesso al governo c’è lei, da sedici mesi». Meloni sfodera la grinta di chi ha imparato a fare politica per strada, ha la risposta pronta: «Non glielo chiedo. Piuttosto la ringrazio per la fiducia che dimostra chiedendoci di risolvere quello che voi non avete saputo fare». Ma la situazione è quella che è e la premier è costretta ad arrampicarsi sugli specchi.

Ricorre a un «Ci stiamo lavorando» che equivale ad ammettere di aver accusato il colpo, rivendica l’aver limitato il ricorso ai medici a gettoni, ripete, truccando le cifre, di aver stanziato per la sanità più di chiunque altro. Nella replica Schlein affonda a mitraglietta e prendere respiro ogni tanto gioverebbe alla resa d’immagine. Per una volta parla a braccio invece di leggere e martella: «Parla come se fosse all’opposizione invece sta al governo e il solo tetto che avete tolto è per la sanità privata. Privatizzare è il vostro obiettivo e adesso, con l’autonomia differenziata appena approvata sarà peggio. Comunque quando è stato fissato il tetto, nel 2009, al governo ci stavate voi». Una sfida a chi ha desertificato di più la sanità pubblica si concluderebbe senza vincitori e vinti. Sinistra e destra hanno dato ciascuno il peggio, più complici che rivali. Ma al governo c’è la destra e al tappeto, stavolta, va la premier.

Il question time con Giorgia Meloni è occasione ghiotta. Tutti mettono sul piatto la loro domanda, una per gruppo, ma l’attesa è concentrata solo sulla sfida finale, quella tra le due leader che forse, anzi probabilmente, si affronteranno nelle urne europee.
Il leader dei 5 Stelle Giuseppe Conte però a fare il comprimario non ci sta. Irrompe, deciso a dimostrare che il solo capace di tenere testa alla campionessa in carica è lui. Lascia che a chiedere ragione della resa italiana sul patto di stabilità sia un compagno di gruppo per spuntare agguerrito solo al momento della replica. Anche qui il terreno è scivoloso, la premier deve difendere l’indifendibile, far passare almeno da pareggio quella che è stata una sconfitta secca. Insomma, poteva andare peggio: «Non è il patto per me ideale ma è il meglio possibile nella situazione data». Non sono le vecchie e cieche regole. Il deficit dovrà veleggiare intorno all’1,5 per cento, però con le norme precedenti sarebbe stato necessario un avanzo dello 0,25% e sono 35 miliardi circa, mica bruscolini.

CONTE DÀ SPETTACOLO: «Dovevate far tremare l’Europa e col pacco di stabilità fate tremare gli italiani. Lei è una Mida al contrario, quel che tocca distrugge, faccia il meno possibile che è meglio. Io ho portato a casa il Pnrr, lei costa agli italiani 12 miliardi l’anno». Se la cava bene anche lui e resta in partita nella corsa al miglior sfidante per quando il gioco diventerà realtà, alle elezioni politiche.

I gruppi di maggioranza pongono problemi calibrati per consentire alla loro leader di far bella figura su questioni come l’aiuto per gli anziani o le privatizzazioni. Si dichiarano tutti soddisfatti dei chiarimenti e chi l’avrebbe mai detto.

IL SEGRETARIO di Sinistra italiana Nicola Fratoianni chiama invece in causa Gaza e Meloni ammette di non essere d’accordo con Netanyahu. Lei i due Stati li vuole. Matteo Richetti, di Azione, insiste su Stellantis e la presidente del consiglio non vedeva l’ora di picchiare sugli Ellkan: «La fusione celava un’acquisizione francese, tanto che un rappresentante di quel governo siede oggi nel consiglio d’amministrazione della Fca. Grazie che poi sono più attenti agli interessi della Francia».
Sembra un solo un giro di giostra ma è il primo vero atto della campagna elettorale. Scintille che divamperanno presto.