«Durante la mia residenza, non ho tentato di catturare l’anima di Napoli, ma mi sono allontanato dall’inutile sventura della Brexit e mi ha davvero impressionato la rilassata convivialità del popolo partenopeo». Era l’ottobre del 2019 quando il celebre walking artist inglese Hamish Fulton (Londra, 1946) cominciò a passeggiare nelle varie strade napoletane e del sud, gustando deliziato anche i pomodori non coltivati in serra («ricordo ancora il loro sapore ricco»). Poi scoppiò la pandemia e anche il sentimento legato a quel suo «andare a zonzo» mutò di segno. «L’arrivo dello sconosciuto coronavirus di Wuhan – seguito dalla Brexit e, ora, dalla insensata guerra di Putin – fece sì che io, non potendo più uscire né intraprendere voli a lungo raggio, accettassi passeggiate locali, ’da’ e ’verso’ la mia porta di casa».

Eppure nel nostro sud, si era immerso a lungo ed è così che nasce la mostra Linking the invisible footsteps of 3 seven days walks on Soutern Italy, proposta al primo piano di Palazzo Caracciolo di Avellino a Napoli, sede della Fondazione Morra Greco (visitabile fino al 30 giugno, insieme alla personale di Daniele Milvio, nei piani superiori, dal titolo Danno erariale, a cura di Gigiotto Del Vecchio).

GIÀ A FINE ANNI SESSANTA, in South Dakota e Montana, Fulton scelse un’arte che fosse intrecciata profondamente con la vita. Guardava ai nativi americani e alle pratiche di meditazione buddista. E intanto, mentre gli altri producevano oggetti-merce da vendere nelle gallerie del mondo, lui camminava, salendo sulle impervie cime dell’Everest e del Denali, in Alaska (denunciando la scomparsa dei ghiacciai).

L’incontro con Fulton fra le sale della sua mostra napoletana è avvolto da una atmosfera zen, che procede per via di togliere, come avviene nei suoi disegni, testi o diagrammi che «contano i passi» delle ascensioni: poche parole, molta introspezione.

«Esistono varie forme di camminata – dice – si va da quella lenta, meditativa al trekking in montagna, con tanto di ossigenazione del cervello. Entrambe producono benefici sia come forme di pensiero che in direzione di una riduzione di quello stesso pensiero. Si tratta di una ’psicoterapia del cammino’. È il modo migliore che conosco per sviluppare una consapevolezza e familiarità con la natura selvatica. Il rispetto per tutte le forme di vita non umane è per me della massima importanza. Odiare la natura conduce, infatti, a risultati precisi: il cambiamento climatico e la crisi ecologica».

Fulton ci tiene molto a non essere inserito fra gli esponenti della Land art, lo sottolinea più volte. «Io parlo sempre della terra, non del landscape che invece è qualcosa posto sotto controllo. Se vai in Alaska, non puoi connotarla come wildness, questa parola non esiste per chi ci vive, è la loro dimora. Rifiuto ogni associazione con la Land art nell’era dell’Antropocene. Per quanto ne so, non è mai stata criticata da una prospettiva ecologica, eppure agisce nel paesaggio, lo modifica, distrugge crateri, vengono pure vendute pietre prelevate dai loro luoghi di appartenenza…».

Fin dall’inizio, Fulton ha dimostrato una certa allergia ai percorsi di formazione accademici – «ho frequentato tre scuole d’arte a Londra tra la metà e la fine degli anni ’60, un grande privilegio certo, ma il mio sogno era quello di evitare tutte le lezioni di storia dell’arte e riuscire a non acquisire alcuna competenza in materia – e così il 2 febbraio del 1967, con un gruppo di altri studenti, si è messo a camminare.

Dall’ingresso principale della St Martins School of Art, situata in una strada trafficata nel centro, fino alle zone rurali, terminando l’azione nei campi di contadini. «Non c’era niente di concettuale in quell’azione, ma era un’esperienza fisica di transizione».

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NEGLI ANNI ha continuato, imperterrito. Da solo, in compagnia, per protesta, per meditare, per scoprire itinerari con una energia ancestrale. C’è qualcosa di sciamanico, allora, in quella pratica immersiva?. «Lo sciamanesimo può esistere solo in determinati luoghi – afferma – non è universale. Sicuramente, la società tecnologica industriale soffre della mancanza di rituali che si radicano nella natura. La religione convenzionale è totalmente incapace di fornire legami profondo con essa, sono i popoli indigeni ad aprire la strada, le stesse persone che abbiamo deciso di distruggere e derubare. Il mio pensiero artistico è influenzato da quel che riesco a sapere su di loro e sugli alpinisti di livello mondiale. Non guardo mai al lavoro di scultori o pittori».

In oltre trent’anni, Fulton ha attraversato a piedi circa venticinque paesi. Alcuni con una storia complessa, che ingloba il loro passato e anche il loro presente.

«SONO STATO IN TIBET tre volte, una prigione che è stata messa a tacere – continua -. Sono salito oltre gli 8000 metri due volte, una senza bombole di ossigeno e una portandole. Ho potuto raggiungere queste altitudini solo con l’aiuto del grande popolo sherpa. Hanno tutti dei nomi, ma nessuno mi chiede mai di loro. Neanche a quali alpinisti mi ispiro. Ho fatto una breve passeggiata con Reinhold Messner, ma alla gente del mondo dell’arte non sembra interessare. Difficile che mi domandino qualcosa anche di Silvia Vidal (alpinista spagnola, ndr). Forse perché non è una pittrice o una scultrice? Le gallerie vogliono una produzione di «arte reale», grandi dipinti e sculture di un certo ingombro, senza parole. Niente commenti sulle esperienze che vanno oltre la visibilità di quelle opere materializzate. Ho trascorso alcuni giorni con Dennis Banks, lui è stato co-fondatore di Aim, l’American Indian Movement e ha attraversato gli Stati Uniti. Un privilegio quell’incontro che non suscita alcun interesse negli altri».

LA COSTELLAZIONE di riferimento di Hamish Fulton non ha nulla dei percorsi tradizionali di formazione che si leggono nelle biografie di chi approda nei musei. Disegna un mondo alternativo che il walking artist ha immaginato per trovare un senso alla vita umana.

«Per concludere sulle mie fonti di ispirazione, offro volontariamente un nome per tutti: Nimsdai Purja (alpinista nepalese celebre per aver scalato tutte le quattordici montagne di 8000 metri nel tempo record di 189 giorni, ndr). E posso aggiungere anche il leggendario Crazy Horse, Vite Deloria Jnr (storico e attivista per i nativi americani), Winona La Duke (attivista, saggista, economista statunitense), Jamyang Norbu (scrittore e attivista tibetano) e Doug Scott (alpinista inglese che à nel ’75 scalò l’Everest)».