Il posto di blocco di Shuafat ieri è stato riaperto solo per un paio d’ore, poi 25mila persone sono state sigillate dentro l’unico campo profughi palestinese a Gerusalemme. Non si entra e non si esce. I servizi di sicurezza israeliani e la polizia di frontiera sono a caccia di Odai Tamimi, il ventiduenne che l’intelligence ritiene responsabile degli otto spari che sabato notte al posto di blocco di Shuafat hanno ucciso una soldatessa, Noa Lazar, 18 anni, e ferito una guardia privata. Tamini, dopo aver compiuto il suo attacco, è fuggito all’interno del campo profughi e gli agenti della polizia di frontiera che gli danno la caccia compiono perquisizioni e raid improvvisi nelle case. Ad accoglierli nelle stradine strette e densamente affollate del campo giovani palestinesi che lanciano sassi.

«Terrorista» da catturare ad ogni costo per gli israeliani, Tamimi per i palestinesi invece è un «guerriero» che ha saputo prima colpire e poi sfuggire, per ora, all’arresto (o all’uccisione). Ieri tutta la periferia di Gerusalemme Est, la zona della città occupata 55 anni fa, era incandescente. Barricate improvvisate, lanci di sassi, cariche della polizia, il fumo denso dei lacrimogeni. Nei quartieri dove decine di migliaia di palestinesi vivono nel degrado, abbandonati dalla municipalità israeliana – proprio come quelli del campo di Shuafat – sembrava di essere tornati indietro di un anno e mezzo, agli scontri e alle tensioni innescate dalla minaccia di espulsione di 28 famiglie di Sheikh Jarrah.

Servizi di intelligence e comandi militari israeliani ieri e domenica sono stati impegnati a studiare le contromisure per impedire che possa ripetersi un attacco come quello di sabato notte. Che sia avvenuto a Gerusalemme ha sollevato non poche polemiche e gli ufficiali di polizia ed esercito responsabili per Shuafat probabilmente saranno rimossi dall’incarico. Per gli abitanti del campo profughi non sono molte spiegazioni da dare. Odai Tamimi è un «lupo solitario» che ha colpito per vendicare i numerosi palestinesi uccisi negli ultimi mesi. «Ha fatto di testa sua, non lo conosciamo come un militante. Forse l’hanno segnato dentro le notizie che arrivano dalla Cisgiordania, i soldati ogni giorno ammazzano un palestinese», spiegava ieri Adel M., un profugo. Si è riferito ai quattro palestinesi adolescenti, tra i 14 e i 17 anni, uccisi tra venerdì e sabato dall’esercito israeliano a Jenin, Qalqiliya e in un villaggio non lontano da Ramallah. Ieri è morto un bambino, Muhammad Samoudi, 12 anni, colpito da proiettili l’addome durante un raid dell’esercito a Jenin il 28 settembre, in cui furono uccisi quattro palestinesi. Cinque morti che hanno suscitato sdegno nei Territori occupati.

In Israele analisti e giornali cominciano a sollevare dubbi sulla campagna militare Breaking the Waves – lanciata, dopo gli attentati (19 morti) della scorsa primavera a Tel Aviv e altre città, dall’ex premier Bennett e proseguita dal primo ministro attuale Lapid e dal ministro della difesa Gantz – avviata per smantellare le «strutture del terrore» in Cisgiordania. Yoav Limor, corrispondente militare del quotidiano di destra Israel Hayom, sostiene la chiusura della Cisgiordania per un lungo periodo poiché l’esercito non ha raggiunto i suoi obiettivi e tutte le notti si registrano spari contro postazioni militari e gli insediamenti coloniali. Maariv, ha pubblicato un lungo rapporto sul gruppo armato indipendente la «Fossa dei leoni». I giovani che ne fanno parte non operano sotto un vessillo particolare. Piuttosto cercano di promuovere una linea nazionalista intransigente. Secondo Maariv la «Fossa dei leoni» è molto pericolosa e capace di rendere la vita difficile ai soldati israeliani. Le azioni di questo gruppo sono imprevedibili, gode di ampio sostegno popolare e ogni giorno vede i suoi ranghi infoltirsi di giovani pronti ad unirsi alla resistenza armata «per combattere l’occupazione». L’Autorità nazionale palestinese, si dice, ha avviato una trattativa con la «Fossa dei leoni» per non avere guai a Nablus.

Il clima di tensione rischia di mandare a monte la «stagione turistica» dei coloni israeliani insediati in Cisgiordania. Ogni anno, in questo periodo di festività ebraiche, i coloni riescono ad attirare nel territorio occupato decine di migliaia di «turisti», quasi tutti ebrei nazionalisti e religiosi. Quest’anno, tra tensioni e sparatorie continue, una porzione di visitatori forse sceglierà di non andare nelle colonie.