Hermann Broch era secondo Canetti un uomo «debole», che non intendeva vincere e neanche prevalere e meno che mai mettersi in mostra – lo ricorda così nel Gioco degli occhi –, eppure combatteva una guerra violenta contro gli stessi incubi che cercava di placare nella ossessione di un sistema: il male e la morte. Ma Broch cattolico ed ebreo, che aveva letto i Padri della Chiesa e che dimostrava di muoversi con circospetta familiarità tra le pieghe, anche le più oscure, del misticismo ebraico conosceva il potere trasfigurante del peccato e l’annuncio vittorioso della vita oltre le sponde incerte della storia. La sua gnosi era diversa da quella dei romantici che affidavano il riscatto alla luce provvisoria dello sguardo poetico e si prefigurava, come molti dei suoi antichi correligionari, le doglie che anticipano la venuta del Messia, all’inabissarsi di una antica morale che annuncia il tempo della perfezione.

Non a caso, dunque, terminata con i Sonnambuli la trilogia della ambigua modernità tedesca, Broch cominciò a progettare un «romanzo religioso» radicato in una isolata e arcaica comunità montana. Pensava  a un titolo che evocasse antichi culti pagani, Demetra, e iniziò a scriverne con entusiasmo un primo tomo. In questo progetto  che  aspirava a «rappresentare la totalità del mondo», si incuneò la truce avventura nazista. Broch pensò a lungo se e quanto piegarsi alle urgenze di un tempo oscuro  accettando le modeste sfide del sociologo e intessendo con gli antichi miti le moderne manipolazioni di rozzi ciarlatani.

La mediazione sembrò riuscire e, nel 1936 il volume era concluso, ma l’autore, insoddisfatto, decise comunque  di modificarlo: lo dilatò, lo rese più lirico, incerto soprattutto sugli esiti della sua saga e sulla uscita di scena dei corruttori della chiusa comunità montana, Marius Ratti e Wenzel, insetti morali dotati di fascino e illimitata ambizione, suggeritori di assassini e di congiure, avidi profanatori della natura.

Fuggito in America, Broch tentò nel 1939 una nuova, lentissima stesura, pesantemente condizionata dai tagli imposti dall’editore e dalle incertezze sulla struttura complessiva di quel romanzo che sembrava impossibile chiudere. Quando la morte lo colse stava ancora rielaborando il quinto dei dodici capitoli e quando, dopo due anni, Die Verzauberung, Sortilegio,  venne infine stampato l’editore lo propose nella prima, provvisoria e magnifica stesura del 1936, accolta nella edizione critica delle opere di Broch e canonizzata da anni di studi e letture. È questa la versione che Elliot propone nella bella traduzione di  Eugenia Martinez (già pubblicata da Rusconi più di quarant’anni fa e ora replicata con lievi interventi  redazionali e con la densa prefazione di Andrea Caterini, 445 pagine, € 20,00).

Broch affida quello che è un vero e proprio magma  narrativo al fragile io di un medico condotto che, fuggito dalla modernità, non sa sottrarsi alle ossessioni dei personaggi, eppure riempe la sua «attesa quasi gioiosa»  di un futuro redento con «il senso del passato e del futuro» e con una tensione verso la trascendenza che gli permette, scrive,  di «cogliere il significato di ciò che è accaduto, di ciò che accadrà, prima che sia troppo tardi», affidandosi alla sua caparbia saggezza, all’umanità e, anche, alla «scienza».

Non solo la intricatissima tessitura dei riferimenti ne fa una sorta di libro infinito, ma anche l’agire sconnesso dei molti personaggi che si muovono inseguendo ossessioni, parole d’ordine confuse, interessi diversi, a loro volta incalzati dalla presenza di antiche divinità: dee della fecondità, madri della terra, Demetra e Kore, frammenti di Dioniso e del suo culto, il potere dell’esorcismo. Un balbettio interminabile e struggente che provoca continuamente il lettore con i suoi rimandi a un inquietante presente, ai miti più arcaici, alle migliaia di libri letti e citati senza compiacimento ma con il languore dell’epigono che vuole rievocare gli appannati sogni di redenzione di una umanità proiettata verso l’eterno.