Dopo avere dato spazio lo scorso anno a George Lewis, musicista afroamericano che propugna la «decolonizzazione» della musica contemporanea di matrice accademica, per liberarla dalla pesante egemonia bianca da cui è afflitta, nella sua 66esima edizione (14-25 settembre) la Biennale Musica di Venezia, diretta da Lucia Ronchetti, torna opportunamente a battere su questo tasto. Un appuntamento, Native American Inspirations (20 settembre, ore 18, Cà Giustinian) è dedicato a compositori nativi americani: fra loro Brent Michael Davids, classe 1959, una lunga carriera come autore di musica contemporanea e per film, con lavori commissionati dal Joffrey Ballet, dal Kronos Quartet, dal gruppo vocale Chanticleer, dalla National Symphony.

Può raccontarci della sua famiglia e di come è cresciuto?

Sono nato nel Wisconsin, ma mio padre, che è Mohicano e Munsee-Lenape, voleva per me un’educazione di livello in una grande città. Così con mia madre, che è inglese, a due anni sono andato via e sono cresciuto a Chicago, dove ho potuto avere esperienze che sarebbero state impossibili in una piccola riserva rurale. Ma come famiglia passavamo molte settimane in visita nella riserva, dove vivevano i miei nonni Minerva e Kenneth, ed eravamo imparentati con molti dei residenti. Molta della riserva era bosco; nella riserva nessuno è proprietario della terra: la nazione tribale possiede l’insieme delle terre come comunità. Io adesso vivo sulla terra dove hanno vissuto i miei genitori e i miei nonni, e ho una casa e uno studio per la musica. Anche se non sono cresciuto qui, la nostra riserva, la nostra cultura, la nostra musica, la nostra gente sono nel mio cuore.

Quando ha cominciato a mettere in relazione la musica nativa con tecniche compositive occidentali?

Ho studiato teoria musicale con l’insegnante dell’orchestra della scuola, alle superiori. Dato il mio background, mi è venuto naturale combinare tecniche occidentali con le mie radici: ho iniziato quando ho imparato il contrappunto del settecento. Poi è stato semplice reindirizzare me stesso in una direzione di studio e pratica multiculturali. I miei primi due lavori sono stati composti ed eseguiti mentre ero alle superiori. Quindi mi sono laureato in musica alla Northern Illinois University, dove Paul O. Steg mi ha stimolato a scrivere musica nello stile di diversi compositori, ogni settimana uno diverso; poi per il master alla Arizona State University ho sviluppato il mio stile sotto la guida di Chinary Ung (compositore cambogiano, ndr). Da lì in poi ho scritto musica da concerto e per film, televisione, danza moderna, balletto, teatro.

Nel mondo musicale accademico ha riscontrato ostilità rispetto alla scelta di usare la cultura musicale nativa nelle sue composizioni?

Il mondo della musica non è diverso dal mondo non musicale: sì, ho sperimentato la discriminazione. Ma non sono in grado di sapere se è stato per avere incluso elementi indigeni nel mio lavoro: però credo che anche se avessi composto senza alcun elemento indigeno, sarei stato trattato allo stesso modo, perché sono una persona di una cultura storicamente cancellata dalle culture dominanti. Ho molti esempi di esplicito pregiudizio da parte di custodi del canone occidentale: orchestre, cori, film, balletti, sale da concerto. Un giorno potrei scrivere un libro su un indiano americano alla corte della musica occidentale, nello stile di Un americano alla corte di Re Artù di Twain: solo che a differenza dell’americano, il mohicano persevera e vince.

Molti compositori americani non nativi hanno cercato di usare uno stile «nativo», in una chiave «indianista».

Gli «American Indianists» hanno avuto una scarsa comprensione di quello che facevano in rapporto alle autentiche culture indigene. Trascrivere correttamente i canti era difficile se non impossibile; l’idea occidentale di musica non combaciava con la cultura nativa: molte lingue native non hanno nemmeno una parola equivalente a «musica». Mentre promuovevano le loro idee e carriere, gli errori che facevano e i loro preconcetti contribuivano a cancellare le autentiche visioni del mondo indigene e i compositori nativi.

Quando compaiono i primi compositori nativi?

Alla fine dell’Ottocento degli studenti della Carlisle Indian Industrial School, come Dennison Wheelock, mescolano tecniche compositive occidentali con idee che vengono dal loro background; sono dei sopravvissuti, perché il motto della scuola è «uccidi l’indiano dentro di lui per salvare l’uomo», ma nonostante questo continuano a scrivere per strumenti occidentali facendo tesoro della loro cultura. Poi sono stati importanti Zitkala Sa, coautrice nel 1913 di The Sun Dance Opera, e nella seconda metà del novecento Louis Ballard (1931-2007) che ha studiato con Milhaud. Ma fino agli anni settanta eravamo pochi, ed era facile ignorarci: adesso non è più così.

Nel suo soggiorno negli Usa alla fine dell’ottocento Antonin Dvorak capì subito l’importanza della musica nativa (e di quella nera): chi per primo fra gli americani non nativi la capì?

Jeannette Thurber, che invitò Dvorak negli Usa, lo spinse ad assistere ad un Kickapoo Medicine Show, e lo ispirò nel sostenere l’idea della musica indigena come primaria fonte culturale necessaria all’America. Molti tendono a vedere Aaron Coplan e Leonard Bernstein come le voci «americane»: ma avere, o creare, una identità americana senza le nostre voci native è impossibile.