Dopo la policromia glam, il biennio americano di David Bowie si era tinto di un bianco sempre più spettrale, culminando nelle visioni dell’eburneo Thin White Duke, tra deliri esoterico-nazisti e fiumi di polveri, anch’esse bianche. «Ero completamente impazzito», avrebbe dichiarato tempo dopo, ripensando a quel sonno della ragione. Per ritrovare il colore era necessario tornare in Europa, svestendo uno alla volta gli abiti ducali. E così, nell’aprile del 1976 l’aerofobico David si era imbarcato sul transatlantico Leonardo Da Vinci, destinazione Genova, primo scalo del pellegrinaggio che lo avrebbe condotto al 155 di Hauptstrasse, Berlino Ovest, culla del quartiere Schöneberg e dell’illustre trilogia di Bowie. Al suo fianco Corinne “Coco” Schwab, Iggy Pop e Andrew Kent, fotografo che lo seguiva dall’anno precedente.

SONO GLI SCATTI di quest’ultimo a narrare il ritorno in Europa dell’artista di Brixton, nella mostra David Bowie – The Passenger – curata da Vittoria Mainoldi e Maurizio Guidoni – che apre i battenti al Teatro Arcimboldi di Milano il 2 aprile. «Ho collaborato con tante rockstar, ma solo con David ho avuto un rapporto così bello e profondo», dichiara il 74enne fotografo americano dalla sua casa in Idaho. «Proprio in virtù di ciò, capivo quando era il momento più opportuno per puntare l’obiettivo su di lui. Non mi interessava documentare tutto, ma soltanto catturare i momenti importanti. Quello che volevo cogliere era il suo lato più quieto». Una tranquillità recuperata tornando a casa, nonostante il frastuono dell’arrivo a Victoria Station, con quel saluto sospetto. «Quelle sul Bowie nazista erano solo fantasie. Da ebreo, non avrei mai potuto lavorare con lui!». Station to Station: le oltre cinquanta foto in esposizione – molte già edite nel volume Bowie behind the curtain del 2016 – compongono un atlante europeo per immagini, dividendo la scena dell’Arcimboldi con i cimeli ormai onnipresenti nelle mostre rock.

«SI TRATTA soprattutto di oggetti “presi in prestito” durante la nostra tappa a Mosca», ironizza Kent: «una scatola da tè con iconografia sovietica, chiavi d’albergo, il cartello di un bagno pubblico con “carta igienica” scritto in quattro lingue… e nessuna di queste è l’inglese!». I curatori, che già si erano cimentati più volte con mostre dedicate a Bowie, ricostruiscono il vagone del treno diretto verso l’ex Urss, alimentando il dubbio che ci si possa ritrovare nell’ennesima Wunderkammer ingombra di abiti, manifesti, documenti sparsi e reliquie. Vale davvero la pena allestire il facsimile di una stanza d’albergo parigina? Kent non può che riportare l’attenzione sulle immagini: «È in quella stanza che è avvenuta la sessione fotografica più intima, con David ripreso mentre si truccava prima dello spettacolo». Ma quando gli si chiede quale, tra le tante immagini di Bowie, ritragga la vera anima di David Robert Jones, risponde: «Quelle che ho scattato per il suo passaporto. Purtroppo però non sono in mostra».