Nel curriculum di Brett Morgen (classe 1968) figurano documentari su sport, politica e musica, con specializzazione in biografie. Tra queste, quella che ripercorre la vita e il lavoro della primatologa Jane Goodall (Jane, 2017) e quella dedicata a Bob Evans (The Kid Stays in the Picture), leggendario produttore della Paramount che nei seventies sfornò classici a ripetizione del calibro di Love Story, Rosemary’s Baby e il Padrino. Ma il mondo a cui sembra regolarmente ritornare il regista californiano è quello del rock.

All’attivo in questo reparto – ancora prima di firmare il suo ultimo lavoro, su David Bowie, – aveva Crossifire Hurricane sui Rolling Stones nell’occasione del 50mo anniversario della band (10 anni fa!) e Montage of Heck (2015) su Kurt Cobain.

Ma ‘biografia’ è una definizione che sta stretta a Moonage Daydream, che è semmai una sorta di indagine filosofica e iconografica sull’incomparabile musicista scomparso sei anni fa. Al documentario classico infatti, Morgen preferisce un assemblaggio di immagini quasi in libera associazione, montate su un collage di interviste d’archivio allo stesso Bowie.

Mentre sullo schermo passa l’incontenibile esuberanza della sua opera, Bowie riflette con lucidità – e in rigorosa prima persona – sullo stupefacente percorso creativo che è cosciente di intraprendere nelle varie stagioni della propria carriera musicale (ma anche da attore e pittore). La cifra è una capacità di autocoscienza ed una eloquenza che separano Bowie dalla gran parte delle rockstar.

E un’altra cosa traspare, la sorta di compulsione creativa che è propria dell’autentica ricerca artistica. Moonage Daydream è certo un film che potrà deludere il fan alla ricerca di una dose di puro concert footage, magari inedito. Morgen subisce chiaramente il fascino del proprio soggetto, al punto di volerne emulare la sperimentazione con remix e ardite dissolvenze musicali (il montaggio sonoro supera addirittura quello visivo per virtuosismo). Il film inoltre non mira a spiegare Bowie ma a ricrearne l’«esperienza» mettendo da parte la struttura cronologica per concentrarsi su di un montaggio a «flusso di coscienza».

Il risultato è una full-immersion che restituisce una delle figure più oblique del rock– inclassificabile ma capace più di ogni suo coevo di rimanere tuttora contemporaneo, a partire dall’antesignana androginia che prefigura l’attuale peso culturale della fluidità di genere. Il duca bianco parla di se stesso e del suo processo di scrittura e del costante cambio di dimora – Londra Berlino, Tokyo, NY Los Angeles – ognuno sfondo per un nuovo capitolo nell’indagine dei temi che lo appassionano o ossessionano, del viaggio infaticabile che intraprende fino al capolinea, il disco-testamento Dark Star, testamento definitivo di un raro spirito artistico.

Il film non è strutturato con molteplici interviste, perché?

Ci sono già stati molti film in cui Bowie è stato spiegato e definito dai suoi collaboratori, io ho voluto che fosse lui stesso a farlo. La cosa che più mi ha sorpreso è stata la consapevolezza con cui ha fatto si che la vita gli offrisse il massimo di possibilità creative. E non avevo capito di quanta saggezza fosse capace nella sua analisi e filosofia di vita. In definitiva immergermi nel suo lavoro mi ha fatto capire quanto Bowie fosse audace e credo più rilevante ancora oggi di quando era in vita.

Ha avuto difficoltà nell’avviare il progetto?

Non è stato facile convincere i produttori perché più che un film avevo in mente un esperienza. Non è una storia nel senso classico anche se poi una storia emerge. Avevo in mente un’esperienza di tipo immersivo, più simile a quella che si può avere in un planetario forse, che non ad un documentario. Poi nel 2018 ho visitato la mostra «David Bowie Is» al Brooklyn Museum e finalmente mi è balenato quello che volevo spiegare. Appena uscito ho chiamato il direttore del Bowie trust e gli ho detto che per capire il film che volevo fare la cosa migliore era aggirarsi per quel museo.

In che senso?

Ho girato molte biografie nella mia carriera e quando ho finito Montage of Heck mi sembrava di aver esplorato un po’ tutto quello che c’era da esplorare in questo genere. Piuttosto volevo cercare di trascendere il documentario o la fiction per avvicinarmi all’esperienza stessa del cinema. Ho cercato di riconfigurare quello spazio avvolgente di modo da poter trarre un’esperienza intima e sublime dai nostri artisti preferiti. Eliminare quindi le interviste classiche e sostituire l’esperienza alla spiegazione. E Bowie si presta a molto di più che una semplice mappatura biografica. La sua produzione è indefinibile ma si presta invece ad interpretazioni molteplici e continue. La sua arte era pensata per rimanere fruibile con illimitate possibilità.

Il progetto l’ha coinvolto a livello personale mi sembra?

All’inizio del progetto quando cominciavamo ad assemblare e visionare i materiali ho avuto un infarto e sono entrato in coma. Non è stato il lavoro sul film a provocarlo, semmai i ritmi e le cattive abitudini di molti anni di vita sregolata. Fatto sta che il mio recupero è coinciso con la mia immersione nell’opera di David. Sapevo il ruolo che aveva avuto all’epoca nel mio sviluppo da adolescente, ora a 47 anni scoprivo la sua importanza nel passaggio ad un’età effettivamente adulta. Si è rivelato per me nuovamente una guida mentre cercavo di mettere ordine spirituale nella mia vita in un momento caotico e frammentario.

Si trattava di un artista in continua evoluzione, vi sono periodi a cui tiene di più?

So che molti fans rimangono attratti dalla sua prima opera negli anni 70. Per me, direi che ora pesano più alcuni lavori più recenti, che prima non conoscevo, come Heathens (2003) un disco che parla più direttamente alla mia esperienza di uomo di 53 anni. La cosa con Bowie è che lui ha continuato a creare cose straordinarie e fuori dal mainstream, quando la gente aveva un po’ smesso di prestare attenzione, per esempio fra il 1995 e il 2005. Mi auguro che anche coloro che sono rimasti ancorati ai suoi primi lavori vogliano esplorare tutta la sua opera.

Essendosi già immerso nella vita e nell’opera di Kurt Cobain, sa rilevare paralleli fra i due?

I veri grandi non creano perché vogliono ma perché devono. David e Kurt (Cobain) non potrebbero essere più diversi, almeno quanto lo sono Moonage Daydream e Montage of Heck. Eppure come dice mia moglie i due film sono due facce della stessa moneta. Uno tratta del dolore e l’altro della vita. Uno di uomo che intende sfruttare ogni secondo che ha; l’altro su qualcuno che vorrebbe zittire quell’impulso. Ma hanno una cosa in comune: nessuno dei due può poggiare la penna.

Qual è la ragione del fascino che conserva tuttora Bowie?

David stesso usava discutere di come nel 1971 stesse già scrivendo per il 21mo secolo e credo sia verissimo. Nel modo ad esempio in cui si interessava già allora dell’incipiente saturazione mediatica, nella quale ci troviamo ormai immersi. Credo avesse percepito in anticipo la angoscia e la frammentazione che caratterizza oggi le nostre vite. Molti di noi lo hanno davvero capito con l’avvento di internet a fine anni novanta. Ma Bowie era già là nei settanta, descriveva già il mondo in cui abitiamo.