Per gli abitanti del quartiere è solo il «complesso Tetris», visti i giochi geometrici e la panoplia di colori che lo rendono riconoscibile a chilometri di distanza. Non soltanto villette a schiera convenzionali, «bensì un garbuglio di costruzioni unite, sovrapposte, avviluppate». Del resto, l’idea di fondo su cui si erano basati gli architetti era che la varietà di forme e dimensioni delle case, come dei colori di porte e finestre, avrebbe definito anche ad una prima impressione quella zona come «una comunità dal carattere urbano che coltivava buoni rapporti di vicinato». Se non un quartiere «pilota», certo un bell’esempio di convivenza nella diversità. Peccato che l’area, nella periferia orientale di Monaco di Baviera, a una decina di fermate di metropolitana dal centro cittadino, sia stata letteralmente edificata su uno degli innumerevoli «rimossi» della storia tedesca. Che a distanza di decenni dai fatti farà la sua drammatica ricomparsa tra le coscienze e le vite stesse di chi lì a scelto di abitare, inseguendo per altro un sogno di felicità sostenibile e in armonia con gli altri.

COME UNA «CASA degli Usher» che paghi un tributo al lavoro di Le Corbusier, o «un condominio» di Ballard ristrutturato sotto la guida di Heinrich Böll, il primo vero protagonista delle indagini di Martin Kühn, 44enne responsabile della Omicidi della polizia di Monaco, è il quartiere di Weberhöhe, dove l’uomo vive insieme alla sua famiglia, a un tempo specchio delle contraddizioni della società tedesca di oggi e metafora urbana non solo dei silenzi complici del passato, ma anche dell’intrecciarsi, talvolta occasionale, in altri casi voluto, di traiettorie e identità individuali e collettive che pongono domande e cercano risposte anche a distanza di più di una generazione.

Primo capitolo di una trilogia che ha riscosso enorme attenzione in Germania e che l’editore Keller ha già annunciato di voler proporre integralmente anche ai lettori italiani, Non c’è pace per Kühn (Keller, pp. 326, euro 18,50) porta la firma del giornalista e scrittore Jan Weiler, considerato non a caso come uno dei nomi nuovi della letteratura di ispirazione poliziesca del Paese. Proprio questo romanzo di Weiler illustra peraltro l’intensa relazione che il noir tedesco di ultima generazione intrattiene con lo spazio della memoria, dell’indagine sociale e della biografia politica del mondo che descrive, trasformandosi sovente, come accade anche con gli scrittori provenienti dalle regioni orientali rispetto alla complessa eredità della ex Ddr – illuminante da questo punto di vista, al di là dei territori nel noir, il caso di Battere i pugni sul mondo di Lukas Rietzschel (Keller) – in una sorta di bussola narrativa in grado di definire la polarità di umori, ansie e inquietudini che attraversano il Paese.

SE IL QUARTIERE di Weberhöhe è nato laddove sorgeva una fabbrica di munizioni che ha a lungo sostenuto lo sforzo bellico del Terzo Reich, facendo anche ricorso al lavoro coatto di deportati rom, sinti e comunisti, e il cui fondatore, Rupert Baptist Weber, sfuggito ad un processo come criminale di guerra solo grazie al suicidio, è stato erroneamente creduto un «resistente» dagli occupanti americani nel dopoguerra, più per la casualità degli eventi che per dolo o cattiva coscienza, tanto da ispirare il nome del nuovo complesso edilizio costruito decenni più tardi, anche Martin Kühn porta in sé le traccie di ferite invisibili che non per questo appaiono meno dolorose o facili da rimuovere dal proprio orizzonte. Entrato in polizia da ragazzo come apprendista invece di continuare gli studi, Kühn è cresciuto nelle zone popolari della città, immerso in quella realtà segnata talvolta dalla violenza e alla quale sarebbe tornato ad affacciarsi per le sue indagini, tra persone sul cui percorso avrebbe in seguito investigato e, seppure Monaco non sia certo paragonabile alla Chicago selvaggia del proibizionismo, seguendo una propria personale «via del sangue» che ha reso i suoi ricordi spesso simili ad altrettante «scene del crimine».

Allo stesso modo, quando, dal sottosuolo di Weberhöhe, i veleni sversati prima dell’arrivo degli Alleati dal responsabile della fabbrica d’armi per cancellare ogni prova dei propri crimini riemergono su pareti e pavimenti degli edifici, il quartiere non è già più la zona «modello» del progetto iniziale. Solidarietà e convivenza sono andate a farsi benedire da tempo, i tag razzisti si moltiplicano e lo stesso Kühn si deve preoccupare delle amicizie neonaziste del figlio adolescente. Passato e futuro sembrano intrecciarsi senza fine, mentre nel quartiere si intravede l’ombra di un possibile assassino seriale. Quanto alla domanda di giustizia dei pochi deportati sfruttati nella fabbrica di armi che sono sopravvissuti, pone a tutti gli abitanti quesiti in apparenza inspiegabili tanto le vicende accadute prima del 1945 sono coperte da strati di false verità o credibili bugie più spessi delle colate di cemento delle fondamenta degli edifici del quartiere. Sarà in qualche modo Kühn stesso, sfidando quella «sensazione di diffidenza latente» che a tratti lo faceva sentire «sospettoso di tutto ciò che lo circondava», a condurre il lettore verso una piena consapevolezza di tutto ciò.

PUR SE NELLA DIVERSITÀ dell’approccio, e con una differente carica introspettiva, inoltre il caso di Kühn non è poi così isolato. A riprova del fatto che in Germania il noir si cimenti sempre più spesso con «le memorie» del Paese, necessario in questo caso ricorrere ad un’accezione plurale del termine, come con la più stringente attualità, basterà guardare dalle parti della ricca collana dei Gialli tedeschi delle Edizioni Emons. Solo scorrendo tra i titoli delle proposte più recenti, ci si può così imbattere ne Il silenzio dei morti di Maximilian Rosar (pp. 354, euro 15), La signorina Zeisig e l’amico americano di Kerstin Cantz (pp. 264, euro 15) e Il solista di Jan Seghers (pp. 162, euro 14,50).

Nel primo caso, si tratta dell’indagine con cui debutta l’ispettore della polizia di Francoforte Joachim Preusser che nella prima metà degli anni Sessanta si trova a misurarsi sia con il riemergere del cupo passato del Paese che con l’annuncio del mondo nuovo che farà irruzione alla fine del decennio e che per il momento ha il volto a lui famigliare della figlia Elke e dei suoi dischi rock. La stagione è segnata dal cosiddetto processo di Francoforte, o secondo processo di Auschwitz, in realtà il primo che si celebrò in Germania contro dei tedeschi che avevano preso parte direttamente al progetto di sterminio degli ebrei e che, proprio per questo, costituì una sorta di punto di rottura sulla strada di una consapevolezza diffusa dei crimini del nazismo. Preusser cercherà di far luce proprio sulla scomparsa di un giornalista ebreo statunitense arrivato in città per seguirne le udienze e ritrovato morto in circostanze misteriose: un caso che le autorità sembrano voler chiudere alla svelta, privilegiando la pista di una rapina finita male, ma che cela, ancora una volta, in realtà segreti e verità inconfessabili.

Ad un altro capitolo della travagliata storia tedesca del secondo dopoguerra fa invece riferimento la nuova indagine dell’ispettrice Elke Zeisig – già presentata su queste pagine due anni fa con un’intervista a Kerstin Cantz – che racconta l’alone di razzismo che ancora nel 1963 accompagna a Monaco di Baviera la convivenza tra una parte della popolazione locale e i soldati afroamericani di stanza in città. Come sempre nei romanzi di Cantz, ad emergere è così il rimosso di una stagione che ha sì segnato lo sviluppo e il rapido arricchimento della Germania, un «boom» ancora più precoce e rapido di quello italiano, ma che, in questo caso, accanto al proliferare dei jazz club e della vita notturna, vedeva riemergere anche antichi e insidiosi fantasmi.

QUANTO ALLE MINACCE che popolano le pagine de Il solista di Jan Seghers, già autore della serie – inedita da noi – del commissario Robert Marthaler, resa celebre anche dai telefilm della Zdf, fanno direttamente eco alle ombre del presente: il terrorismo jihadista che ha colpito al cuore anche la Germania, in particolare la strage al mercatino di Natale di Berlino del 2016, e la crescita vertiginosa dell’estrema destra che si va compiendo proprio speculando sulla paura e il senso di insicurezza dei tedeschi. Un’inedita coppia di investigatori, Neuhaus e la sua collega di origini turche, malgrado il soprannome che le è stato affibbiato, «Grabowski», sono impegnati a sventare nuovi allarmi e a prevenirne altri nell’ambito di una unità antiterrorismo della polizia. Sullo sfondo, la Berlino multietnica attraversata da un’onda di odio e preoccupazione e che, al pari del Paese intero, sembra fare sempre più fatica a riconoscersi in un volto segnato dai tratti del dolore e della sfiducia reciproca.