Biden tira dritto e supera (a metà) la prima conferenza stampa con i cronisti
Stati uniti Né un disastro né un trionfo. La prima conferenza stampa in 8 mesi del presidente democratico non scioglie i dubbi del partito e dei donatori sulla sua ricandidatura
Stati uniti Né un disastro né un trionfo. La prima conferenza stampa in 8 mesi del presidente democratico non scioglie i dubbi del partito e dei donatori sulla sua ricandidatura
Raramente conferenza stampa presidenziale è stata più attesa. Non è che la nazione trovi avvincente gli sviluppi dell’alleanza atlantica e come, attraverso di essa, si evolva la postura geopolitica americana. Gli affari ester languono anche quest’anno fra gli ultimi di cui si interessi l’opinione pubblica d’oltreoceano, specie in un’ottica elettorale.
Invece come ampiamente previsto la prima conferenza stampa “a braccio” tenuta da Biden in otto mesi è stata tutta nell’ottica di rassicurare la stampa e il pubblico della competenza dell’ottantunenne presidente nel mezzo di un potenziale ammutinamento che rischia di costargli la candidatura.
Ufficialmente l’appuntamento con i giornalisti verteva sul summit Nato ma già prima di iniziare la serata aveva preso una brutta piega quando, nella cerimonia di chiusura, il presidente annunciando il patto per l’Ucraina che è stato prodotto principale di questo summit ha presentato sul palco Zelensky chiamandolo con un lapsus “presidente Putin.”
Biden è notoriamente soggetto alle gaffe, e si è subito ripreso con una battuta autoironica, ma nel contesto odierno lo sbaglio non ha potuto che caricarsi di ben altri significati.
Nella conferenza durata quasi un’ora, Biden ha fatto una arringa in difesa del suo operato, sull’economia in primis ma anche sulla politica estera dalla Russia, alla Cina a Gaza, su cui ha detto di essere ripetutamente deluso dall’oltranzismo e l’ostruzionismo del governo Israeliano” più reazionario di sempre.”
Biden ha dato risposte anche molto dettagliate (a volte lievemente sconclusionate) su proiezione ed egemonismo americano in Europa e Asia come fondamenti della sua visione globale. In particolare, il presidente democratico ha fatto dell’espansionismo Nato a guida americana la vetrina della conduzione a stelle e strisce di una nuova guerra fredda, criticando al contempo l’isolazionismo casareccio di Trump, che si è spesso vantato di “non sapere nemmeno bene cosa fosse la Nato” prima di scoprire che si tratta di una associazione per scroccare protezione a spese degli Usa (e per questo la pacchia deve finire presto).
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Un’Alleanza da campagna elettoraleNel complesso una performance senza vistosi sbagli (a parte un’altra gaffe, sul nome di Kamala Harris, diventata “Trump” in una risposta).
Il presidente è riuscito perfino a proiettare anche passione ed energia in un paio di occasioni, parlando del pericolo mortale alla democrazia rappresentato dall’avversario e dalla corte suprema più conservatrice di sempre. Oppure quando alzando la voce ha chiesto come sia possibile che negli Stati uniti la prima causa di morte dei minorenni siano ancora le armi da fuoco.
Alla domanda sul perché avesse deviato dalla missione annunciata quattro anni fa – quella di impegnarsi su un solo mandato “ponte” per traghettare il paese dal caos trumpiano del 6 gennaio a una nuova generazione di leader – ha sostenuto di essersi reso conto che il lavoro è “complesso al punto di necessitare un secondo mandato per finire il lavoro”.
Sotto l’incedere delle domande è giunto a contemplare, ma solo teoricamente come non impossibile, un passo indietro “se i consiglieri gli dimostrassero di non essere in grado di vincere” ma tanto questo “non avverrebbe mai.”
Ha elogiato a più riprese la vicepresidente Harris come una personalità assolutamente preparata ad assumere la presidenza, ammesso che forse vi sono altri in grado di battere Trump – e perfino detto che i suoi delegati sarebbero liberi alla convention del mese prossimo di cambiare idea e votare per un altro candidato (anche se “non lo faranno”). Ha poi che “è molti tardi” per immaginare un riorientamento del partito su un’altra figura.
Controlliamo le armi, non il corpo delle ragazzeJoe Biden
Nel complesso, la conferenza stampa non è stata né il disastro che alcuni erano giunti ad auspicare per tagliare la testa al toro, né il successo perfetto che è impossibile da raggiungere in queste condizioni. Semmai un’altra occasione per mettere sotto i riflettori impietosi della massiccia macchina elettorale americana un presidente succube in qualche misura di una condizione su cui non può influire: essere anziano.
Intanto quel riflettore continua a oscurare Trump che oggi due lunghi editoriali sulle due coste (New York Times e Los Angeles Times) definiscono come non idoneo a governare “nelle parole, nelle azioni e nella morale.”
Perso nel vortice della campagna elettorale anche l’ennesimo rapporto positivo sull’economia con inflazione al 3%, crescita trimestrale del 2%, salari in crescita, disoccupazione in calo, con la possibilità di un taglio ai tassi della Fed già a settembre. Il tipo di notizie che in tempi normali sarebbero il toccasana per una campagna ma che oggi passano inesorabilmente in sordina.
È sempre più profonda quindi la spaccatura interna fra i democratici, una frattura da cui fuoriescono rancori e antichi veleni. I bidenisti denunciano il tradimento dei riformisti e financo una manovra a lungo preparata dai nemici del presidente. Ispirati da una nota della campagna Biden i lealisti definiscono le obiezioni come frutto di maschi bianchi, ricchi e privilegiati, che non hanno nulla da perdere e giocare d’azzardo con i diritti di donne e minoranze. Dall’altra parte si critica come partito e staff abbiano occultato l’entità del problema fin quando non rischia di essere troppo tardi per correggere il tiro e battere Trump.
Una situazione insomma che non depone certo bene per un piano unitario di successione già fuori tempo massimo, con buona pace di coloro che esortano a non lavare in pubblico i panni del partito.
Per non parlare del fattore Clooney e del suo corsivo sul New York Times in cui l’attore che meno di un mese fa era ospite di un fundraiser col presidente a Los Angeles ha dichiarato senza appello che l’uomo sul palco con lui quella sera non era più quello di una volta, che non sarà possibile vincere con lui a novembre e di parlare a nome di “tutti i democratici” (avendo apparentemente avuto il permesso dello stesso Barack Obama).
Su tutto incombono le defezioni quotidiane (ad oggi 16 parlamentari democratici e un senatore) e i sondaggi – i numeri che alimentano i dubbi di molti democratici.
Lo svantaggio nazionale di Biden si attesterebbe al momento attorno ai due punti, nel margine di errore, ma certo peggio dei 10 di vantaggio che aveva 4 anni fa.
Più preoccupanti ancora sono gli svantaggi negli stati chiave – quelli del blue wall, il”muro blu” del Midwest necessario a Biden per vincere la maggioranza del collegio elettorale: Michigan (Trump +3), Pennsylvania (Trump +1) e Wisconsin (pari). Trump è in testa anche negli altri swing states, (North Carolina, Nevada, Georgia e Arizona).
Il New York Times riporta intanto che la leadership starebbe commissionando nuovi sondaggi per tentare di valutare un ipotetico scontro diretto Trump-Harris, e alcuni primi rapporti parlerebbero di un vantaggio della vicepresidente per 49-47.
I sondaggi, in definitiva, non cambiano la sostanza del problema: la percezione, forse fatalmente danneggiata negli occhi del pubblico dall’infausto dibattito, di un Biden anziano e non all’altezza. Ma potrebbero fornire la ragione alla leadership democratica per intervenire con il capo e convincerlo al passo indietro.
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