Lloyd Dogget del Texas è diventato il primo parlamentare democratico a chiedere pubblicamente un passo indietro a Joe Biden. Successivamente lo ha fatto anche Tim Ryan, dell’Ohio. Se ancora ieri, in una chiamata con lo staff, il presidente ribadiva la propria candidatura in termini «inequivocabili», la bufera non accenna a smorzarsi.  Non hanno aiutato gli ultimi numeri, che registrano uno slittamento nel gradimento del presidente. Un sondaggio di ieri rilevava un suo deficit di 6 punti nel confronto con Trump, mentre la Kamala Harris avrebbe uno svantaggio minore, solo due punti. Secondo un altro campione, il 75% degli Americani considererebbe opportuno sostituire Biden con un altro candidato (compresi il 51% dei democratici).

SECONDO una fonte anonima citata dal New York Times come «alleato chiave» del presidente, Biden sarebbe cosciente dell’improvvisa precarietà della propria candidatura, e dell’importanza cruciale delle prossime apparizioni pubbliche, compresa l’intervista in programma per domani sul talk show di George Stephanopoulos (Abc).
Per il partito democratico, questo 4 luglio si profila come una festa nazionale convulsa, mentre contempla l’impensabile, una potenziale sostituzione in corsa alla vigilia di una campagna presidenziale. Unico precedente storico che vi si avvicinerebbe è il ritiro di Lyndon Johnson, dopo un’unica primaria, nel marzo del 1968. Quell’anno il candidato Dem, Hubert Humphrey, venne sconfitto agevolmente da Richard Nixon, dopo una travagliata convention tenuta, guarda caso, a Chicago – la stessa città che la ospiterà il prossimo agosto.

Eppure il possibilismo a questo riguardo continua ad insinuarsi. L’altroieri l’ex speaker Nancy Pelosi ha accreditato perlomeno l’ipotesi. «Credo che sia una domanda legittima sapere se sia stato un episodio isolato o sintomo di una condizione», ha dichiarato, riferendosi al dibattito di giovedì scorso. Jim Clyburn, altro democratico di punta nel Congresso, è parso rincarare la dose di scetticismo dicendo «Dobbiamo sostenere Kamala Harris che sia vice, o al vertice del ticket».

L’INTERESSATA si è nuovamente trincerata, replicando che «Il candidato è Joe Biden, che ha già battuto Trump una volta ed è pronto a rifarlo. Sono fiera di essere la sua vice». Ma già il fatto che il nome della vicepresidente venga evocato in questi termini dà la misura della dinamica in atto, cui contribuiscono anche diversi candidati parlamentari, preoccupati che lo slittamento di Biden possa sopprimere ulteriormente l’affluenza e pregiudicare le elezioni per il Congresso.

D’altra parte non vi sono garanzie che una sostituzione non peggiori la situazione, senza dire del rischio di una scissione interna che il dibattito che infuria sui social sembrerebbe già confermare. Una scelta impossibile, dunque, che i democratici affrontano sullo sfondo di una situazione ulteriormente stravolta dalla clamorosa immunità accordata a Trump dalla Corte suprema. La sentenza ha enormemente alzato la posta in gioco, trascinando il paese su un terreno costituzionalmente inedito ed alterando radicalmente l’equilibrio fra i poteri istituzionali.
Will Scharf, il legale che nel ricorso ha rappresentato Trump, confermava ieri alla radio Npr che la nuova immunità permetterebbe ora al presidente (quello che nel 2020 aveva chiesto di gambizzare i manifestanti Blm) di compiere ed ordinare impunemente atti illegali dallo Studio ovale, starebbe poi semmai ai sottomessi valutare e rifiutare di eseguire gli ordini.

COME ASSAGGIO della carta bianca regalata a Trump, la condanna per reati di falso in ufficio comminati a New York è stata rimandata a settembre e potrebbe verosimilmente venire retroattivamente invalidata.
Gli Usa esistono, da lunedì, in un mondo costituzionalmente parallelo, in cui 6 giudici appartenenti ad una fazione fanatica hanno forzato una sterzata di portata maggiore di molti emendamenti emersi da commissioni bicamerali, dibattuti e votati dal Congresso. Rendono l’atmosfera le parole minacciose proferite da Kevin Roberts, capo della reazionaria Heritage Foundation, «È iniziata la seconda rivoluzione americana – che non sarà sanguinosa – sempre che la sinistra lo permetta».