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Biden doppia uno scoglio, ma non basta

Joe Biden lascia la conferenza stampa tenuta dopo la chiusura del vertice Nato a Washington foto ApJoe Biden lascia la conferenza stampa tenuta dopo la chiusura del vertice Nato a Washington – foto Ap

Usa Le due settimane che ribaltarono una campagna (e forse l'America). In giugno Donald era un pregiudicato con tre processi in vista, oggi domina su un uomo in crisi

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 13 luglio 2024
Luca CeladaLOS ANGELES

Se la conferenza stampa di giovedì avrebbe dovuto servire da test attitudinale per il traballante Joe Biden, il risultato è stato, volendo ricorrere a terminologia medica, inconcludente. Non abbastanza negativa, insomma, per risultare immediatamente squalificante, né sufficientemente brillante per dissimulare i segni di un’età che mette serio repentaglio le sue prospettive elettorali. Il briefing ha prodotto un mix di elogi e nuovi inviti al ritiro, come dire avanti tutta nel panico. Sarebbe stato difficile immaginare anche un mese fa, uno scenario più repentinamente precario.

AI PRIMI di giugno un Trump, fresco di condanna per 34 capi di imputazione, era in attesa di tre ulteriori processi, due dei quali per tentata sovversione dell’ordine democratico. Un Biden pur non brillante doveva ancora iniziare a carburare una campagna che in partenza poteva comunque contare su un residuo scalpore per l’attacco repubblicano ai diritti – aborto in primis. Facevano ben sperare anche almeno un paio di decisioni favorevoli su circoscrizioni elettorali – perennemente contese negli Stati uniti dove le mappe dei collegi possono pilotare le maggioranze uninominali, che a loro volta determinano la composizione del collegio elettorale. I sondaggi rimanevano inchiodati su di una sostanziale parità, ma il feeling interno alla campagna Biden era che una maggiore esposizione pubblica di Trump ed eventualmente un confronto diretto avrebbe potuto smuovere l’ago della bilancia – magari con un bel dibattito in diretta, fortemente voluto proprio dai Democratici.

IL RESTO è storia – ed un vertiginoso capovolgimento delle sorti. All’infausto dibattito, a Biden è stato inspiegabilmente permesso di partecipare in stato semi-confusionale e con voce afona, in contravvenzione alle più elementari regole dell’immagine, così millimetricamente calibrate durante le campagne elettorali.

LA DIRETTA TV dell’imperatore, con i nuovi abiti in bella vista, hanno ribaltato in novanta minuti l’universo mondo della campagna “più cruciale per il faro della democrazia”. Dapprima ha scatenato il panico, in seguito la rabbia contro l’entourage di Biden che aveva affermato di avere tutto sotto controllo e infine una crescente ribellione contro lo stesso candidato, di colpo diventato impresentabile per un’ipotetica “metà dei democratici” o per una “distaccata élite” a seconda di quale parte accreditare. Di parti bisogna parlare, perché il partito democratico è sull’orlo di una guerra civile, proprio nel momento in cui più sarebbe richiesta unità di intenti e strategie.

Contemporaneamente gli eventi hanno sorriso all’avversario che pur avendo tentato un colpo di stato improbabilmente si ripresentava da pregiudicato alla soglia dello Studio ovale. Trump era sostenuto dalla base inamovibile del suo movimento populista e rimaneva vettore di un progetto estremista in cui confluiscono le anime più fanatiche della destra estremista americana, ma appariva quantomeno parzialmente ossidato dalle vicende giudiziarie che presagivano infine un giudizio parziale sulle sue oggettive malefatte. O lo facevano prima che la Corte suprema, cinque giorni dopo il dibattito, aprisse una crisi costituzionale concedendo una immunità presidenziale che equivale al colpo di spugna sui processi ed una preventiva licenza a delinquere in un possibile nuovo mandato, diventato improvvisamente probabile.

DOPPIAMENTE graziato dalla “sua” Corte e dall’implosione dell’avversario, Trump si trova alla vigilia della convention che inizia dopodomani a Milwaukee come super favorito. Libero di essere se stesso, Trump è tornato ai comizi “post-politici”, infarciti di aneddoti improbabili, battute da bar e tangenti chilometriche da zio eccentrico (oltre che vendicativo, xenofobo e disinvoltamente razzista e misogino) al pranzo di Thanksgiving.

Oggi come oggi gli Stati uniti contemplano un prossimo presidente eversivo che, programma alla mano, promette di “decostruire lo stato amministrativo” e con esso buona parte dell’impianto costituzionale del paese. Non deve forse sorprendere, allora, che lo stesso Trump tema una ancora non esclusa sostituzione in extremis di Joe Biden (a giudicare dagli attacchi al critico George Clooney o alla potenziale sostituta Kamala Harris, anche se i donatori democratici hanno congelato 90 milioni di dollari e le defezioni dal campo di Biden si allargano ogni giorno). D’altra parte, quale candidato non vorrebbe prolungare al massimo un tale stato confusionale degli avversari.

IL RICEVIMENTO pseudo presidenziale a Mar-A-Lago di dignitari stranieri come Orbàn, e l’imminente selezione di un vicepresidente fra una rosa di estremisti ideologici (fra papabili Doug Burgum, Mario Rubio e JD Vance), sono sintomi di qualcuno che si sente ormai predestinato. Al netto si intende di ulteriori convulsioni nei rimanenti tre mesi e mezzo della campagna elettorale destinata a passare alla storia come la più convulsa della storia americana.

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