Ieri 15 maggio, su Haaretz, il giornalista Etan Nechim affrontava il processo storico di rimozione della Nakba che attraversa Israele fin dal 1948: «Riconoscere la Nakba è centrale per entrambi. Non è la messa in discussione dell’esistenza di Israele, piuttosto riconosce che Israele, come qualsiasi stato-nazione, non è nato da immacolata concezione ma è emerso da un contesto storico di creazione e conflitto. (…) ci permette di affrontare il nostro passato, sfatare i miti, restituire dignità ai palestinesi dopo 76 anni».

Quel processo di negazione, aggiunge Nechim, è passato per il divieto per i palestinesi di commemorare l’espulsione e la distruzione, per la legge dello Stato-nazione che riconosce diritti solo agli ebrei, per leggi fondative che hanno permesso allo Stato di appropriarsi di tutte le proprietà palestinesi. E hanno avuto come effetto la cancellazione della questione palestinese dall’orizzonte delle generazioni israeliane venute dopo.

LA CANCELLAZIONE da decenni si traduce in una coazione a ripetere l’espropriazione e la cacciata: se in Cisgiordania le colonie crescono con ennesime confische di terre, su Gaza da giorni cadono volantini che spiegano che significa essere indesiderati. I volantini dell’esercito israeliano piovono a sud per dire di spostarsi verso nord, piovono a nord per dire che lì non si può stare.
Non c’è scampo, è come se si chiedesse ai palestinesi di evaporare.

È in tale contesto di negazione di quell’esistenza che ieri il primo ministro israeliano ha detto che non c’è crisi umanitaria a Rafah: fame e malattie – ha detto Netanyahu – «non si sono materializzate né lo faranno».

Lo dice mentre il valico resta serrato (anche ai feriti, non possono uscire), come resta chiuso quello di Kerem Shalom, dove ai blocchi «istituzionali» si aggiungono i roghi agli aiuti appiccati dall’estrema destra (ieri in Cisgiordania un gruppo di coloni ha picchiato un camionista palestinese perché pensavano trasportasse aiuti). Dal 6 maggio, dice l’Onu, sono entrati appena sei camion.

Due giorni fa il governo israeliano aveva accusato l’Egitto di tenerlo chiuso senza nominare i carri armati che lo hanno occupato, accusa che probabilmente serviva a fare pressioni sul Cairo dopo la decisione di unirsi al Sudafrica nel caso alla Corte internazionale di Giustizia. Ma mettere in discussione un’alleanza storica è rischioso: ieri una delegazione israeliana è tornata in Egitto per appianare il diverbio.

Molto più di un diverbio è invece il confronto in corso a Tel Aviv dopo che il ministro della difesa Gallant ha chiesto pubblicamente a Netanyahu di negare la prospettiva di un «esecutivo militare» post-guerra a Gaza. Dall’ultradestra di Smotrich e Ben Gvir allo stesso premier, è partito il fuoco di fila: nel futuro di Gaza non c’è posto per una leadership palestinese, che sia l’Autorità nazionale o tanto meno Hamas.

DA PARTE SUA il movimento islamico ricompare come guerriglia da dove Israele diceva di averlo eliminato, nel nord e nel centro di Gaza. Ieri il campo di Jabaliya è stato l’epicentro di duri scontri: alla Reuters gli abitanti e i nuovi sfollati hanno raccontato di colpi di artiglieria pesante da parte israeliana e di spari dei gruppi palestinesi. «Colpiscono le case con le famiglie dentro, sono intrappolate», racconta Abu Jehad, un residente. Hamas parla di 12 soldati uccisi, Israele non conferma ma un suo comandante riferisce ad Haaretz la frustrazione di vedere la ripresa dei combattimenti con Hamas, capace di attaccare le truppe con ordigni esplosivi.

A Gaza City un bombardamento aereo ha centrato un clinica dell’Onu e alcune case, uccidendo venti persone. «Ho provato a contattare mia madre – racconta Samir Shaaban ad al Jazeera – Sono corso alla clinica per trovare mia madre fatta a pezzi e mio padre senza vita accanto a lei». A Deir al-Balah, dove tantissimi del mezzo milione di sfollati si sono diretti dopo la fuga da Rafah, un raid israeliano ha centrato Jalaa Street in un momento di calca.

Secondo i giornalisti sul posto, in tanti si erano ritrovati in un internet point funzionante quando è partito l’attacco. Almeno tre gli uccisi, una decina i feriti gravi. «Non è la prima volta che vediamo questo tipo di attacchi su civili che si riuniscono in grandi gruppi, che sia per la distribuzione di cibo o per un impianto solare per ricaricare telefoni e pc», ha scritto il reporter Hani Mahmoud. Dal 7 ottobre sono 35.233 i palestinesi uccisi a Gaza, a cui vanno aggiunti almeno diecimila dispersi e un numero non precisato di morti per fame e malattie.

A RAFAH a sparare è stata l’artiglieria, sintomo dell’operazione terrestre che ieri la Ue ha condannato per bocca dell’alto rappresentante agli esteri Josep Borrell: «Se Israele dovesse continuare la sua operazione militare a Rafah, ciò metterebbe inevitabilmente a dura prova le relazioni dell’Ue con Israele».

Diverso l’approccio degli Stati uniti che, se a voce dicono lo stesso, poi si allineano alla dottrina Netanyahu secondo cui Rafah va attaccata «per garantire (a Israele) la sopravvivenza»: a sentire la stampa statunitense, l’amministrazione Biden intende inviare un altro pacchetto di armi, un miliardo di dollari in munizioni per i carri armati e proiettili da mortaio. Proprio le armi che Israele userebbe in un’offensiva via terra su Rafah.