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Biden alla prova della sensibilità dei giovani sulla guerra a Gaza

Biden alla prova della sensibilità dei giovani sulla guerra a GazaUna manifestazione pro Palestina a New York – foto Ansa

Presidenziali Usa Alla nuova generazione di elettori, in prevalenza sensibili al costo umano di questa guerra, il presidente Usa è apparso troppo arrendevole verso le scelte di Netanyahu

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 22 novembre 2023

Nelle scorse settimane hanno fatto un certo scalpore alcuni sondaggi che sembravano indicare un calo dei consensi per Joe Biden in due settori dell’elettorato (giovani e non-bianchi) che avevano portato Barack Obama alla vittoria nelle presidenziali del 2008.

E che venivano considerati come cruciali per un nuovo ciclo di successi per i Democratici. In realtà, come ha osservato John Burn-Murdoch nella sua rubrica dedicata alla lettura dei dati sul Financial Times (diventata da qualche tempo un punto di riferimento per i lettori che vogliono districarsi nella selva quotidiana di sondaggi e statistiche), la faccenda è un po’ più complicata di come appare.

In primo luogo perché ci sono differenze notevoli tra i sondaggi che fanno uso di diversi metodi di rilevazione (telefono o on-line) per la fascia dei lettori più giovani, e poi perché, visto in prospettiva storica, l’allontanamento degli elettori non bianchi (prevalentemente neri e ispanici) dal partito democratico non è un fenomeno nuovo. Esso corrisponde al fatto che stanno emergendo, tra gli elettori di questi due gruppi sociali, componenti più conservatrici che prima erano meno prominenti. Tutto bene, dunque, per Biden? Non proprio, perché, come osserva lo stesso Burn-Murdoch, sebbene questi risultati abbiano scarso valore predittivo per quanto riguarda il voto del novembre prossimo, essi sono comunque un segnale preoccupante – che non andrebbe trascurato – dai Democratici.

La prospettiva che il presidente democratico più a sinistra degli ultimi decenni venga abbandonato proprio dagli elettori più giovani è certamente preoccupante, non solo per la politica interna (un presidente repubblicano cancellerebbe certamente buona parte delle, sia pur caute, misure di equità sociale che Biden ha cercato di promuovere), ma anche per la politica internazionale. Specialmente se, come a questo punto non si può affatto escludere, il candidato repubblicano fosse l’ex presidente Donald Trump. Una politica estera erratica come quella che abbiamo visto negli anni di permanenza alla Casa Bianca di Trump sarebbe sicuramente un fattore di instabilità, in una fase in cui le tensioni e i conflitti (potenziali o in atto) sono aumentati in maniera significativa.

Sotto questo profilo la crisi che si è aperta in Medio Oriente in seguito all’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, cui è seguita l’invasione della striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano, col suo spaventoso bilancio di vittime civili (molte delle quali donne e bambini) è stata senza dubbio un fattore molto importante. Agli elettori più giovani, che sono in prevalenza sensibili al costo umano di questa guerra, l’atteggiamento di Biden è apparso eccessivamente arrendevole nei confronti delle scelte compiute da Netanyahu e dal suo governo. In particolare ha pesato la linea di non usare il proprio ascendente su Israele per ottenere una moderazione nell’uso della forza in aree densamente popolate da civili. Anche se negli ultimi giorni l’atteggiamento degli Stati Uniti è leggermente cambiato, per esempio sul tema delle violenze in atto da parte dei coloni israeliani e sulla necessità di una trattativa per ottenere una liberazione di una parte degli ostaggi, questi interventi sono apparsi tardivi e troppo tiepidi, specialmente in una situazione in cui il numero complessivo delle vittime civili dei bombardamenti continua a crescere.

La prospettiva di un secondo mandato di Biden alla Casa Bianca dipende verosimilmente dal fatto che i Democratici riescano a mettere insieme, e a condurre al voto di novembre, una coalizione sociale ampia, nella quale gli elettori più giovani potrebbero essere un fattore decisivo. La possibilità, che per gli strateghi democratici potrebbe trasformarsi in un incubo, di un successo (sia pure relativo) del candidato radicale Cornell West potrebbe avvantaggiare i Repubblicani. Sullo sfondo c’è un tema che non riguarda solo gli Stati Uniti (in una situazione simile potrebbe trovarsi anche il Labour di Starmer nel Regno Unito). La classe dirigente della sinistra moderata, che guarda al centro, sembra incapace di rendersi conto fino in fondo di quanto gli orientamenti degli elettori più giovani si siano spostati negli ultimi anni su posizioni che i liberali percepiscono come «radicali», ma che invece sono semplicemente quelle di un riformismo più esigente e combattivo, che chiede un riequilibrio più marcato di quello che si è visto finora sul fronte della lotta alle diseguaglianze (non solo economiche, ma anche di riconoscimento) e della sostenibilità ambientale).

Biden sotto questo profilo si è trovato in una posizione difficile: liberale moderato, e per certi versi conservatore (soprattutto nella politica estera), ha dovuto interpretare un ruolo che non gli è del tutto congeniale, nel quale a volte apparso quasi a disagio. L’anno che ci separa dalle elezioni presidenziali sarà una corsa in salita per i Democratici, che richiederebbe uno slancio che potrebbe rivelarsi superiore alle energie di un presidente già molto anziano.

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