Bettini: «Al Pd serve autocritica sugli errori, no a nuove scissioni»
Goffredo Bettini, oggi sono due mesi dalla sconfitta del Pd alle elezioni. In questi 60 giorni sono stati gettati i semi per una rifondazione del partito o si è perso tempo?
Il processo avviato è molto aperto. L’esito è incerto. I tempi sono serrati. Le adesioni alla fase costituente da parte di forze e energie esterne, se non si allarga l’orizzonte, rischiano di essere un po’ burocratiche. Tuttavia non si è perso tempo. Il confronto tra opinioni diverse è iniziato, anche se non in modo esplicito e chiaro. Ognuno si deve impegnare perché diventi via via più ricco.
Lei sta chiedendo ai dem di fare una scelta netta tra socialismo e liberalismo. Crede che queste due culture possano ancora convivere nello stesso partito o dovrebbero separarsi? C’è il rischio di una scissione alla fine del congresso?
Il Pd ha unito diverse culture; non solo il socialismo e il liberalismo. Nessuna è incompatibile con l’altra. Il punto è un altro: al congresso occorre scegliere con nettezza una linea politica, un punto di vista sulle contraddizioni del mondo di oggi, un programma fondamentale da perseguire, un’alternativa di governo. Tutto questo manca. Chi perde non deve separarsi, piuttosto con spirito unitario prepararsi a prevalere al prossimo congresso. D’altra parte ci chiamiamo democratici. Sarebbe un disastro annacquare tutto nella diplomazia degli stati maggiori. Scontro solo sui nomi e altrettante alleanze solo sui nomi. Allora non ci sarebbe la scissione, ma la consunzione e dispersione del Pd, la sola forza in grado di reggere con solidità l’urto della destra.
La direzione ha approvato un comitato costituente di circa cento persone. Lei non c’è. È stata una sua decisione?
No. Nessuno mi ha consultato. Letta ha ritenuto di non propormi. Come sa, molti mi definiscono “potente”; ma alla stretta degli incarichi anche i più modesti e naturali (l’ho ripetuto all’infinito) non sono preso quasi mai in considerazione. Ma non me ne dolgo. Al contrario, conservo una felice libertà. Consideri poi che ho l’occasione di parlare spesso anche sui giornali o in tv. Il mio contributo al congresso del Pd lo sto dando con il mio ultimo libro «A sinistra. Da capo» e con le presentazioni che sto svolgendo in molte parti d’Italia; per ora tutte affollate e appassionate.
Crede in questa fase costituente? Funzionerà?
Ci credo. Funzionerà se a chi chiamiamo a partecipare offriamo dilemmi chiari, proposte innovative sulla forma partito, scelta su linee alternative. Se ci sarà solo un contributo generico, tutto ritornerà come prima. È necessario abbattere ogni forma di reticenza. Non abbiamo altri “tempi” da giocare. La partita è questa e non va sprecata. Non so cosa uscirà dal comitato di quasi cento persone che dovrà ridisegnare la cornice dei valori. Ma i valori senza un indirizzo politico convincente, qui ed ora, rischiano di rimanere appesi ad un unanimismo senz’anima. Il Pd quando nacque fece bene ad indicarli, come fondamento e ragione della sua esistenza. Ora, francamente, è l’identità politica che va definita. D’altra parte, alla fine, i nostri valori sono quelli scritti nella Costituzione italiana. Mi aspetto analisi, previsioni per il futuro, autocritica sugli errori commessi, valutazioni sull’attuale sviluppo della modernità. Questo serve.
In campo per ora c’è sostanzialmente Bonaccini. Come valuta questa candidatura?
Una persona seria, ottimo amministratore, combattivo e convinto delle sue idee. Aspetto con curiosità un suo programma completo e più organico.
La sinistra interna pare in difficoltà, quasi appesa alle future decisioni di Elly Schlein. Come se non riuscisse a esprimere una propria candidatura.
Schlein non si è ancora candidata. Ha espresso in una lunga intervista le sue prime elaborazioni. Molte le condivido. Ma anche per lei vale quanto detto per Bonaccini. Occorre intendere meglio la sostanza di questo approccio iniziale. C’è tempo. Ricordo che, insieme a loro, si sono già candidati Paola De Micheli e Matteo Ricci. Da non sottovalutare perché potrebbero, per diverse ragioni, allargare molto i propri consensi. La prima è stata importante come supporto alla segreteria di Zingaretti, il secondo è, da quasi dieci anni, il sindaco strepitoso di Pesaro; intelligente e veloce anche sui temi della politica nazionale. Ripeto: al di là dei nomi, che si possono ulteriormente aggiungere nelle prossime settimane, personalmente mi interessa quanto i candidati almeno in parte raccolgano le riflessioni che ho messo in campo. Non voglio votare una faccia ma un programma di intenti. La sinistra del partito non è in difficoltà. Sta ragionando. Avrebbe ottimi candidati. Autorevoli, colti, solidi. Ma, forse, non ha ancora trovato quel filo di solidarietà interno che può permettere di combattere questa battaglia così difficile. Vedremo.
Lombardia e Lazio, ci sono spiragli per una intesa con Conte?
Alle regionali vedo, purtroppo, assai difficile un’intesa con Conte. Debbo dire non per colpa del Pd. Le divisioni nazionali hanno pesato nei territori. Peccato. Non sostenere Majorino, ottimo candidato e tra i migliori dirigenti di una nuova generazione del Pd, e smontare l’attuale alleanza che comprende i 5Stelle nel Lazio mi paiono due grandi favori alla destra. Sulla Lombardia c’è un’apertura di Conte, che verificherei positivamente fino in fondo.
E sulla manovra ci sarà una mobilitazione comune?
Almeno sulla manovra le opposizioni dovrebbero fare fronte comune. Ma vedo valutazioni diverse. Per me, come ha detto Orlando in direzione, non è una manovra solo improvvisata e inadeguata. È una manovra di classe. Senza umanità verso i poveri, penalizzante per i lavoratori dipendenti colpiti dall’inflazione, generosa con gli evasori e l’economia in nero, ossequiosa con i ricchi a cui non si chiede alcuno sforzo per uscire dalla crisi. Al di là delle promesse elettorali, la destra ha subito cominciato a fare la destra; che sta sempre lì: gerarchie e difesa dell’ordine; quello voluto dai potenti e dai più protetti.
Condivide la scelta di quegli europarlamentari che, come Smeriglio, hanno votato contro la risoluzione che definisce la Russia “sponsor del terrorismo”?
Il tema è delicatissimo. Non ho mai avuto dubbi nell’appoggiare l’Ucraina orribilmente aggredita, anche con l’invio delle armi. La pace non è arrendersi. Ma difendersi con una forza da contrapporre alla forza che ti vuole distruggere. Ma mentre sostieni il popolo ucraino, devi pensare anche a come costruire le condizioni di una pace duratura, di un compromesso, da raggiungere in un mondo multipolare. Definire la Russia uno stato «sponsor» del terrorismo significa esasperare il conflitto. Portarlo al suo estremo. Si rischia di fare le “anime belle” sulla pelle degli ucraini, che muoiono. Biden mi pare più misurato dell’Europa. E l’Europa sta delegittimando il proprio ruolo di mediazione e di impegno per la pace; che sarebbe naturale svolgesse. E poi rifiuto il clima (che soprattutto alcuni Paesi dell’Est europeo suscitano) secondo il quale ogni valutazione diversa circa il sostegno all’Ucraina e la via per la pace vengono messi all’indice come manifestazioni pro-Putin.
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