A dispetto della sua natura schiva e della sua tempra di studioso universitario di stampo classico, Émile Benveniste è stato non soltanto un faro degli studi linguistici, ma una figura intellettuale al centro di molte delle appassionate e spesso turbolenti vicende culturali e storiche del Novecento. Specialista dell’antico iranico e in generale delle lingue indoeuropee, ha lasciato studi fondamentali di linguistica storico-comparativa, e ha tradotto il suo interesse per la ricerca etnografica delle lingue amerinde in una più generale attenzione per la dimensione antropologica del linguaggio: insieme a Claude Lévi-Strauss e al geografo Pierre Gourou, fu uno dei tre fondatori, nel 1960, della rivista L’homme.

Di origini ebraiche mediorientali, ma naturalizzato francese – era nato  a Aleppo nel 1902 – e per di più comunista dichiarato, venne catturato e imprigionato tra il 1940 e il 1941, riuscendo però a evadere per rifugiarsi nel sud della Francia, non ancora occupata; da lì riuscì a passare in Svizzera con l’aiuto di Georges Redard, suo amico e  professore all’Università di Berna, che organizzò il suo espatrio tramite una serie di messaggi scambiati in un antico dialetto persiano di cui sia lui sia Benveniste erano specialisti. Una volta riuscito a raggiungere Friburgo, e a stabilirvisi fino alla fine della guerra, lavorando come bibliotecario, si legò di una solida amicizia con Gianfranco Contini.

Benveniste deve al concetto di «enunciazione» la fama rivoluzionaria che i suoi studi di linguistica introdussero nel paradigma strutturalista, in cui pure era immersa inizialmente la sua ricerca. I precedenti erano nel Corso di linguistica generale del 1916, dove Ferdinand de Saussure inaugurò lo studio sincronico del linguaggio, stabilendo una epoché, per cui la lingua deve essere studiata in se stessa come organizzata in una serie di entità che contraggono una relazione oppositiva e differenziale, e non più come una moltitudine di etichette da attaccare agli oggetti. Da qui, la famosa clôture – autosufficienza e immanenza – del sistema linguistico, dal quale sono espunti sia il referente che il soggetto.

Lungi dal nascere d’un colpo, le scoperte di Benveniste sono il frutto di un processo le cui tappe si articolano in una serie di articoli distribuiti dal 1946 al 1970, anno in cui venne pubblicato, sul celebre numero 17 della rivista Langages, a cura di Tzvetan Todorov, l’articolo «L’apparato formale dell’enunciazione», che sintetizza e riassume la summa del suo pensiero. Il punto fondamentale, nelle tesi di Benveniste, sta nell’osservare che la soggettività è un fatto interno al linguaggio: l’uomo non ha altro mezzo per porsi come soggetto se non attraverso il linguaggio, perché in esso si trovano le forme per esprimere la sua soggettività (e non ci sono lingue al mondo che ne facciano a meno), cioè i pronomi personali, e in particolare il pronome personale soggettivo «io». La nozione di «enunciazione» parte appunto da qui: in questa forma, il parlante si pone come il centro di una serie di coordinate personali, spaziali e temporali. Inoltre, l’enunciazione del pronome personale «io» istituisce una seconda persona, il «tu», determinando le coordinate dell’intersoggettività. Ai pronomi sono correlate altre forme: il «qui», per esempio, delimita lo spazio del soggetto parlante. Anche le forme della temporalità, del resto, prendono origine dall’atto di enunciare: il presente verbale e il tempo della forma avverbiale «ora» si spostano continuamente nel tempo e la loro collocazione, nella catena degli eventi, si coglie proprio considerando come il tempo individuato da queste forme sia coestensivo al tempo in cui il soggetto parlante li enuncia.

A Benveniste si deve, inoltre, la necessità di reintrodurre la nozione di «referente», altro elemento di revisione dello strutturalismo classico. Se Roland Barthes – grande ammiratore di Benveniste – nel suo periodo strutturalista sosteneva paradossalmente e ironicamente la necessità prioritaria di «uccidere il referente», Benveniste mostra invece come il referente appartenga a pieno titolo al livello dell’enunciazione. Diversamente da una parola come (per esempio) «albero», che mantiene lo stesso riferimento al mondo esterno da chiunque sia pronunciata, i pronomi personali (Benveniste considera tali solo «io» e «tu», in contrapposizione alla grammatica tradizionale, che conta anche «egli») cambiano infatti referente a seconda del soggetto che li enuncia; e così avviene anche con le forme temporali e spaziali corrispondenti alla prima e alla seconda persona.

La dimensione del referente riguarda anche la distinzione tra «semiotico» e «semantico», che emerge negli articoli scritti tra il 1966 e il 1969, compresi nei Problemi di linguistica generale: se «semiotico» è tutto ciò che viene rappresentato dal sistema di segni descritto dallo strutturalismo classico, ciascuno dei quali segni ha una «significanza», ma non è coordinato a un referente, il termine «semantico» coincide con la frase e ha necessariamente una referenza.

Sono temi, questi, tramite i quali Benveniste entra in risonanza più che con i linguisti coevi, con altri intellettuali – studiosi appartenenti all’area della psicoanalisi, soprattutto – di quegli anni ribollenti. Non a caso, il saggio titolato «La soggettività nel linguaggio» venne inizialmente pubblicato nella rivista Journal de psychologie nel 1958; e fu d’altronde Lacan, che ambiva a una conferma da parte di Benveniste della sua tesi per cui l’inconscio sarebbe organizzato come un linguaggio, a sollecitare per la rivista La Psychanalyse il saggio titolato «Sulla funzione del linguaggio nella scoperta freudiana» (del 1956).

Più interessante ancora è il dialogo che Benveniste intraprese con la filosofia analitica, una corrente di pensiero guardata perlopiù con sospetto dai linguisti: nel 1963, una lunga appassionata discussione lo oppose a John Langshaw Austin, riconosciuto come il fondatore della pragmatica linguistica grazie al suo libro, titolato emblematicamente Come fare cose con le parole. Tra quelle righe, Benveniste rivendicava a sé l’individuazione dei verbi performativi (quelli che hanno il potere, nominando una azione, di renderla compiuta: «giurare», «promettere», «ordinare») distinti dai verbi costativi, che si limitano a descrivere una azione.

Ai due volumi dei Problemi di linguistica generale (tradotti rispettivamente nel 1971 e nel 1985 dal Saggiatore) e al Vocabolario delle istituzioni europee (tradotto nel 1976 da Einaudi), si aggiungono ora le Ultime lezioni Collège de France, 1968-1969 (traduzione di Nicoletta di Vita, Neri Pozza, pp.224, € 25,00) il cui interesse sta nel presentare una testimonianza viva dell’attività didattica di Benveniste, nei due anni precedenti all’ictus che lo colpì nel dicembre del 1969, lasciandolo afasico. Ricostruite attraverso le note preparatorie redatte dallo stesso Benveniste e integrate (in un corpo tipografico diverso) dagli appunti presi da allievi che divennero a loro volta  importanti linguisti – Jean-Claude Coquet, Claudine Normand e Jacqueline Authier-Revuz – queste lezioni riprendono la distinzione tra «il semantico» e «il semiotico» come quadro generale e aggiungono una importante novità relativa al tema della scrittura (mai affrontato prima da Benveniste), probabilmente in risposta agli allora recenti libri di Derrida – La grammatologia e La scrittura e la differenza,  pubblicati, appunto, nel 1967 – dove il filosofo francese aveva polemizzato contro il «logocentrismo» di origine platonica.

La domanda a cui Benveniste tenta di rispondere in otto delle sedici lezioni pubblicate nel volume è quale sia il rapporto tra la lingua e la scrittura, distaccandosi immediatamente dalla posizione di Saussure – per altri versi, sempre maestro ammirato – che aveva considerato la scrittura come «rappresentazione della lingua» e aveva confuso «la scrittura con l’alfabeto, e la lingua con una lingua moderna». Di contro, Benveniste istituisce, nelle sue lezioni, una fondamentale distinzione tra «la lingua sotto forma scritta» e «la scrittura» come sistema semiologico autonomo, portando, tra l’altro, esempi di lingue pittografiche e ideografiche che nulla hanno a che vedere con il parlato.