Cortés, nel sonetto di Keats Guardando per la prima volta l’Omero di Chapman, guarda «con occhi d’aquila» il Pacifico dalla cima di una vetta nel Darién, meditando in silenzio sull’immensità che si stende davanti a lui, ancora tutta da scoprire. La sensazione che il poeta evoca non deve essere stata diversa da quella provata dai pionieri del cinema. Erano alla fine di un lungo viaggio di scoperta, cominciato dalle grotte di Lascaux e dagli effetti dei fuochi sulle pitture degli animali e dei cacciatori, che si concludeva con la capacità, finalmente conquistata, di catturare il movimento. Ma quando si accorsero delle potenzialità narrative che l’abbinamento e la selezione delle «vedute» in movimento erano in grado di generare, dovettero realizzare che un oceano creativo si stendeva ai loro piedi, e che in qualche modo, oltre che di catturare il tempo, avevano conquistato anche la facoltà di crearlo. Così come potevano ambire a restituire, rispetto a uno stesso evento, la molteplicità dei punti di vista.

Il montaggio cinematografico – concetto e tecnica allo stesso tempo – avrebbe finito per influenzare in profondità le arti del Novecento. Tra i numerosi intellettuali che ne furono più o meno direttamente ispirati, si possono includere Walter Benjamin ed Ezra Pound, al centro del terzo volume dell’opera artistico/letteraria di Frédéric Pajak Manifesto incerto (L’Orma editore, traduzione di Nicolò Petruzzella, pp. 223, € 28,00): il primo, com’è noto, progettava un’opera composta da un montaggio di sole citazioni, il secondo quasi realizzò quest’ideale assemblando via via nei suoi Cantos frammenti, ideogrammi, numeri, lingue, personaggi. La vicinanza di Benjamin e Pound nel volume dello scrittore e disegnatore francese non è dovuta, in superficie, a ragioni di pratica intellettuale e artistica: li accomuna tematicamente, in un movimento contrario, il suicidio del primo in fuga dal nazifascismo, e la compromissione del secondo con il regime italiano, in una convergenza di paranoia personale e storica. Ma se si deve rendere conto di un’impresa come quella di Pajak, che unisce disegno e narrazione, biografia e autobiografia, può essere utile portarne alla luce le fondamenta artistiche. La tecnica del montaggio appare così come una delle chiavi, forse la più importante, che permette di misurare l’ambizione dell’autore Premio Goncourt 2019 per la biografia: l’assemblaggio delle immagini e dei testi pone in tensione continua gli elementi concettuali, filosofici e storici con quelli emotivi, procedendo in maniera fieramente anti-illustrativa (non siamo, qui, nei territori del fumetto o del graphic novel).

Un esempio di questa strategia è la sezione intitolata La notte dimentica il giorno, in cui le voci di amici e compagni di strada di Pound – oltre che stralci di interviste del poeta stesso – sono abbinate a primi piani stretti di busti romani, a suggerire il peso monumentale della storia europea e l’assurdo miraggio di salvarla e riscattarla con l’adesione al fascismo; fino all’ultimo disegno, un ritratto scultoreo del vecchio Pound corredato dalla citazione del Don Chisciotte: «Io sono ormai in possesso del mio giudizio, libero e chiaro, senza le caliginose ombre che su di esso avevano gettato le mie continue, squallide letture dei detestabili libri cavallereschi…».

Un montaggio, quello di Pajak, che è dunque direzione del pensiero, à la Ejzenštejn, ma non solo. Una serie insistita di vedute dei nudi paesaggi mediterranei tra Francia e Spagna fluisce insieme al racconto della resa di Benjamin al destino, e l’emozione silenziosa delle immagini fa diventare le asciutte parole del resoconto biografico sempre più dense e allo stesso tempo più fragili, quasi in una via crucis. La mente si arrende alle cose come, al termine dei Canti pisani, messo a tacere il magma della cultura e della storia, Pound si abbandona a una sorta di nuda preghiera: «Se la brina afferra la tua tenda / Renderai grazie che la notte è consumata».