Visioni

«Beetlejuice Beetlejuice», spiritelli del passato e nostalgia canaglia

«Beetlejuice Beetlejuice», spiritelli del passato e nostalgia canagliaRyder e Keaton in «Beetlejuice Beetlejuice»

Venezia 81 La Mostra si è aperta con il film di Tim Burton, che ritrova il suo personaggio 35 anni dopo. Riprendono i loro ruoli Michael Keaton, Winona Ryder, Catherine O'Hara; New entry nel cast Monica Bellucci, Jenna Ortega e Willem Dafoe. Il ritorno a Winter River e il successo del primo lavoro, un aldilà popolato e pieno di colori in un gioco cinefilo

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 29 agosto 2024

Quando quella casa di bambola di un aldilà celato nel plastico della cittadina americana di Winter River, così uguale a infinite altre, irrompe sugli schermi Tim Burton è al secondo film, il primo lungometraggio, Pee wee’s Big Adventures (1985) era stato un successo e per questo la Warner aveva deciso di affidargli un nuovo progetto. Ciò che però accadde con Beetlejuice fu probabilmente una sorpresa per tutti. Quel musical folle di gestualità decostruita, umorismo, satira diviene subito un film di riferimento, una capsula del tempo fra gli anni Ottanta reaganiani e infinite declinazioni dell’immaginario mescolati al ritmo di Day-O (Banana Boat Song) di Belafonte che ne scandiva una delle scene più «cult».

TRENTACINQUE anni dopo Burton è diventato un regista di successo, ha permeato delle sue visioni Hollywood, ha vissuto (creativamente) negli ultimi anche fasi difficili con lavori meno riusciti e altre traversie produttive. È per questo che è tornato a quel suo personaggio «primario» coi pantaloni a righe e i vermi che gli fuoriescono dal corpo, che disgusta, ma che nel suo essere talmente eccessivo finisce per divertire più che terrorizzare? Chissà. Sembrerebbe di sì almeno a quanto dice lui stesso: «Quando si invecchia la vita può prendere direzioni diverse da quelle previste e forse pure io mi ero un po’ perso. Questo film mi ha ridato il senso nelle cose che faccio e mi ha fatto capire che devo appassionarmi per farle bene».

Eccolo dunque di nuovo a Winter River insieme alla famiglia Deetz per Beetlejuice Beetlejuice, nel quale ritroviamo gli attori del primo film a cominciare da Michael Keaton, indomabile Beetlejuice, e poi Winona Ryder, Catherine O’Hara insieme alle new entry come la compagna del regista Monica Bellucci, Jenna Ortega e Willem Dafoe nel ruolo di una controfigura di film di film «poliziotteschi» morto sul set. Lydia (Ryder) – che del regista è un po’ l’alter ego – la ragazzina darkissima e punk con la dote di vedere gli spiriti e molto astio nei confronti della «matrigna» artista Delia è ormai cresciuta e conduce una trasmissione tv sui fantasmi il cui regista è anche il suo nuovo compagno, un tizio molto new age con cui cercano la serenità spirituale. La figlia Astrid (Ortega) la detesta, per lei i fantasmi sono solo «stronzate» – «credo a quello che vedo» ripete – e si vergogna di quella famiglia di pazzi che l’ha resa bersaglio per tutte le ragazzine del college. Finché Charlie Deetz muore in un incidente aereo e loro devono tornare nella casa «stregata».

LYDIA INTANTO sente di nuovo la minaccia di Beetlejuice mentre spiriti vecchi e nuovi si ritroveranno fra quelle mura velate di nero – installazione ideata da Delia (O’Hara) che utilizza la performance come elaborazione del lutto per la morte dell’amato marito. Le due dimensioni vanno in collisione fino al paradosso che rende necessaria la temutissima invocazione delle tre volte: «Beetlejuice, Beetlejuice, Beetlejuice» con cui l’indomito spirito, sempre innamorato di Lydia, potrà riprendersi almeno per un po’ la scena.

Burton mischia anche qui i generi con sequenze fantastiche, il «suo» aldilà è pieno di colori, di figure che conoscevamo e che ritornano variate nelle nuove possibilità tecnologiche – i serpentoni di sabbia – di musica, di invenzioni, la banchina del Soul Train destinazione ignota e senza ritorno è un musical di Broadway, i defunti stanno sempre in una sala d’attesa che somiglia a una qualche ufficio terreno, e hanno i corpi che «raccontano» la loro morte: divorati dallo squalo a metà come Charlie Deetz o pieni di pesciolini come il marito di Lydia e padre amatissimo di Astrid affogato nel Rio delle Amazzoni. A complicare le cose c’è una ex di Beetlejuice che vuole succhiargli l’anima (Bellucci) e quel poliziotto «finto» – Dafoe – che va a caccia di vivi quando valicano la porta dei morti citando film di genere (omaggio esplicito a Mario Bava).

È QUESTA di Beetlejuice Beetlejuice (in sala il 5 settembre) un’operazione vintage di nostalgia nella quale il regista sembra divertirsi a disseminare senza rimpianti il presente nel passato, quasi che quel plastico fermo nella soffitta sia stato anche per lui – e non solo per il suo «spirito» prediletto il punto di partenza. L’idea del tempo e delle occasioni perdute, di un rimanere congelati fra vinili e vecchi libri sui fantasmi, di un passaggio del testimone fra madre e figlia – e in genere fra le generazioni è diffusa nella narrazione con leggerezza, quasi che Burton riprendendo in mano la materia dei suoi (quasi) esordi voglia permearla del proprio vissuto creativo e di quei timori che ne sono parte, dei quali il personaggio di Lydia si fa appunto voce. Il suo è un gioco cinefilo che offre naturalmente numerosi spunti agli appassionati e lo fa con intelligenza ma senza troppi sussulti. Con un po’ di tenerezza romantica e qualche battuta che ammicca al presente, seguendo un po’ come quando si riguardano i filmini di famiglia un riconoscimento che rassicura.

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