Bataille, esercizi di rinuncia al mito delle origini
Saggi filosofici A Georges Bataille e alla rivista da lui diretta, «Documents», Didi-Huberman dedica «La somiglianza informe», una ricerca sulle strategie per contrastare la metafisica dell’immagine
Saggi filosofici A Georges Bataille e alla rivista da lui diretta, «Documents», Didi-Huberman dedica «La somiglianza informe», una ricerca sulle strategie per contrastare la metafisica dell’immagine
Nel primo grande racconto mitico della nostra tradizione c’è un riferimento che ha segnato in ogni suo tratto la mentalità occidentale, quello relativo a una certa corrispondenza tra copia e originale: Dio «creò l’uomo a sua immagine e somiglianza», dice il testo di Genesi. All’origine dell’opzione teologica e metafisica che ha connotato sviluppo e limiti del nostro modo di vedere l’umano e il mondo, la «similitudine» è posta immediatamente come decisiva: non suggerisce un rapporto sensibile e naturale, ma una relazione trascendente, soprannaturale tra Creatore e creatura. L’effetto è, come noto, tremendo. Nel momento in cui l’uomo infrange il divieto di mangiare dall’«albero della conoscenza del bene e del male», la trasgressione commessa causa una perdita assoluta, che riguarda per l’appunto l’elemento più peculiare della somiglianza con il Creatore: l’immortalità. Di fronte alla violazione del tabù, e una volta comminate a Eva e Adamo le robuste punizioni del caso – dominio maschile e dolore del parto, lavoro incessante e ritorno alla polvere – il Signore pronuncia parole che non lasciano dubbi: «Ecco, l’uomo è diventato come noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Ora dunque, che egli non colga anche dell’albero della vita e ne mangi e viva in eterno». La punizione delle punizioni sta nella privazione di una similarità autentica con Dio, nella esclusione da una conformità reale al Creatore – e con ciò nel vivere come problematica l’iniziale similitudine edenica.
Georges Didi-Huberman, tra i maggiori filosofi e storici dell’arte contemporanei di area francese, dedicando gran parte della sua riflessione alle nozioni di immagine e di somiglianza, ha scritto, sull’aspetto mitico e culturale appena evocato, un grande studio datato 1995, riedito in versione ampliata nel 2019, e ora tradotto per la prima volta in italiano: La somiglianza informe o il gaio sapere visuale secondo Georges Bataille (a cura di Francesco Agnellini, Mimesis, pp. 532, € 28,00).
Più libri convergono in questo volume, nessuno dei quali subordinato all’altro, ciò che ha fatto di questa indagine avvincente − innovativamente ibrida, di grande rilievo sia documentario sia critico-filosofico, che investe anche i capi dell’etica e della politica − un vero e proprio classico. Didi-Huberman si rivolge a una delle fasi più interessanti del singolare itinerario intellettuale di Bataille, quella che alla fine degli anni Venti lo vide segretario della rivista «Documents», tra i periodici più radicali del suo tempo e non solo, sia sul fronte della sperimentazione concettuale e visiva, sia grazie alla sua transdisciplinarità, marcatamente collettiva, spinta ben al di là di quanto le pratiche surrealiste fossero mai riuscite a realizzare. Tutti i testi scritti da Bataille per la rivista – densi, corrosivi – vengono evocati e commentati da Didi-Huberman, non solo discutendo il rapporto dei saggi con le immagini perturbanti che li accompagnano o che con essi stabiliscono una contiguità insieme rigorosa e imprevista, ma spiegandone le importanti relazioni implicite tramite i contributi di intellettuali come Michel Leiris, Carl Einstein, Marcel Griaule, fra gli altri, nonché i nessi con le urgenze di un’epoca che, dopo gli stravolgimenti prodotti dalla Grande Guerra, aveva visto diffondersi le politiche fasciste e di lì a poco avrebbe conosciuto le soluzioni hitleriane. Ne risulta un fitto reticolo di rinvii, in cui antropologia, archeologia, etnografia, filosofia, storia delle religioni, critica d’arte, sociologia e teoria della (contro)cultura si richiamano vicendevolmente, a gettare luce sulla battaglia – entusiasta, comica e al tempo stesso serissima – che il giovane Bataille e i suoi sodali ingaggiarono contro una tradizione avvertita ormai, e per ottime ragioni, come compromessa con la situazione politica, oltre che inadeguata a rispondere alla profondità della crisi contemporanea.
Al tempo stesso, attraverso un’analisi sempre perspicua, anche se appena ridondante, Didi-Huberman restituisce la complessa posta in gioco teoretica, a carattere «ateologico», antidealistico, antiestetico, che anima «Documents», di cui la nozione di «informe», nella sua relazione con quella di «somiglianza», è la cifra maggiore.
Bataille e il suo gruppo si impegnarono a scomporre sistematicamente la costruzione immaginaria di cui la metafisica, da Platone a Hegel, è stata portatrice. E per farlo misero in discussione ogni gerarchia tra copia e modello, sconvolsero tutti i rapporti tra «alto» e «basso», favorirono il contatto – spesso sconvolgente – di ciò che la tradizione culturale su similitudine e conformità si era impegnata a tenere accuratamente separato. L’effetto è una chiamata alla rinuncia a ogni forma di mitologia dell’origine, a qualsiasi luce sia incapace di brillare nella profondità dell’immanenza e nel rapporto stesso tra gli uomini, considerati infine per ciò che sono, nella loro realtà materiale e nei loro legami con i fenomeni del mondo, soprattutto i più bassi e residuali. Attraverso montaggi, avvicinamenti, rimandi, distacchi, «Documents» produce una contaminazione della somiglianza, scuotendo ogni sostanzialità delle immagini e ogni pertinenza delle idee tramandate. È un lavoro testuale/visuale che dinamizza le forme, non per consegnarle a un loro preteso «tutt’altro», ovvero all’amorfo, ma per immetterle in un processo di alterazione, capace di offrirne una verità più profonda: di conferire loro una forza affermativa, suscettibile di far esistere e di far pensare diversamente.
L’informe, secondo Bataille, non è assenza o disgregazione delle forme – spiega Didi-Huberman – ma loro dislocamento, apertura dei loro margini, processo d’istituzione di affinità laceranti, lavoro per renderle simili a soglie o varchi utili a arrivare all’uomo e al suo corpo nella singolare, densissima fragilità, che li riguarda, e che è ben lontana da armonie ideali e atrofizzanti.
Attraverso lo studio di Bataille e di «Documents», Didi-Huberman ci presenta dunque lo snodo maggiore di una ricerca sulla metafisica dell’immagine e sulle possibili strategie per contrastarla. Al tempo stesso, a proposito della questione dell’informe, elabora una acuta riflessione estetologica (che a suo tempo generò una violenta polemica con Rosalind Krauss) facendo anche leva, come spesso nei suoi lavori, sul sapere psicoanalitico e sulla filosofia di Benjamin. Ne viene fuori una riflessione su come possa darsi una cultura effettivamente vivente e un ethos davvero inventivo, un esercizio autentico del compito critico e una pratica artistica all’altezza dei rompicapo dell’attualità – di ogni attualità.
In definitiva, il pensiero promosso da La somiglianza informe invita, in modo nuovo, a rinunciare a ogni tentazione antidialettica e alle rigidità pseudoradicali delle logiche duali. È un pensiero, quello di Didi-Huberman, che non rinuncia mai a rendere prioritarie le relazioni, i processi, le connessioni, perché solo così diventa possibile mettere davvero in questione la sovranità millenaria di ogni morale asfittica, contestare il dominio della colpevolizzazione e delle coercizioni.
Il campo dell’umano è fatto di mescolanze irriducibili, impurità, simultaneità contraddittorie, alterazioni sintomatiche insistenti: saperlo e soprattutto sentirlo e farlo sentire è il compito che Didi-Huberman sente necessario per costruire un legame effettivo tra gli uomini, e tra gli uomini e le cose, al di là da ogni somiglianza ideale o immaginaria.
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