Un fotografo che ha dimostrato di voler raccontare la città di Beirut, quella distrutta e a volte sanguinante, è proprio Gabriele Basilico. La Beirut dei tanti, troppi anni di guerra civile, ma anche quella che si è poi sempre rialzata in piedi, cercando di scrollarsi di dosso le macerie del passato.

Architetto, distratto e poi definitivamente conquistato dalla fotografia e soprattutto da Beirut, viene oggi raccontato nel libro edito da Contrasto Ritorno a Beirut, con traduzione in inglese e con testi dello stesso Basilico e di studiosi, fotografi, e immagini a colori e in bianco e nero (pp. 200, euro 45,00). «La pratica del ritornare crea una singolare disposizione sentimentale – aveva scritto – come l’attesa per un appuntamento desiderato, un risvegliarsi della memoria per luoghi, oggetti, persone, come se si riaccendesse il motore di una macchina ferma da tempo. Erano passati diversi anni e tuttavia ogni volta è stato come se tornassi dopo un tempo memorabile, un tempo senza tempo che contiene un poco della storia del mondo, la memoria di un mondo calata nella fisicità di un luogo (…)».

Chissà perché, ma Beirut, con tutte le sue ombre e contraddizioni, somiglia a una narrazione mitologica.
Gabriele Basilico non ritrae solo paesaggi urbani, ma sembra raccontare soprattutto una sorta di umori e drammi quasi senza voce, di strade distrutte e poi ricostruite e che si arroccano pazientemente sulle colline della città.
Si vede così una specie di «architettura emotiva» che nelle fotografie riproduce la serietà e il silenzio di brandelli di edifici che aspettano imperterriti, e forse anche arrogantemente, di essere giustamente ricostruiti.

Beirut è quasi, e paradossalmente, una città abbastanza caotica, con clacson che suonano sempre (per avvisare – si scopre poi – che una macchina pronta al servizio taxi si sta avvicinando), ma le immagini fermate dall’obiettivo di Basilico sembrano raccontare un silenzio costruito solennemente da strutture architettoniche afone. Nella parte del libro che comincia a narrare la città prima della ricostruzione, troviamo immagini in bianco e nero.
Palazzi distrutti, bombardati e grigi, dove anche il cielo sembra rimanere fisso, anticipano fotografie di nuovo a colori, nelle quali la fermezza e il silenzio lasciano parlare le forme e la fantasia dell’architettura.
In tutte queste fotografie non si riescono a scorgere – se non come piccole ombre anonime – esseri umani, ma solo la severità immobile degli edifici e delle strade.

Il profilo di un albergo bombardato, come sfregiato, riprodotto sulla quarta di copertina – probabilmente il vecchio Holiday Inn, che ha continuato a essere un monito contro la guerra per chiunque arrivasse in città – ha forse voluto rappresentare una segno inconfondibile della grande e infinita metropoli.
L’architetto milanese che ha speso la sua intera vita a inquadrare la realtà e scattare fotografie, è riuscito a fermare su pellicola quella immagini di Beirut del 1982 (quando nella città fu violentemente interrotto il cessate il fuoco, dopo l’attentato contro le Nazioni Uniti per responsabilità non ancora del tutto chiare).

Basilico aveva conquistato il suo primo successo internazionale con un lavoro in cui il suo occhio fotografico cerca e racconta il difficile ambito sociale di Milano. Da allora in poi, continuerà a essere sempre e solo un fotografo. Le immagini limpide, ferme e drammatiche di Beirut, riescono forse a essere paragonate solo alla voce di Fairuz quando intona la canzone dedicata alla sua città: Li-Beirut (https://www.youtube.com/watch?v=8ayX6ZSpBgg).

Il libro raccoglie le immagini dei quattro diversi soggiorni del fotografo in città, già dal 1991 quando la Hariri Foundation e la scrittrice libanese Dominique Eddé, lo coinvolgono nella narrazione, alla fine del conflitto civile insieme ad altri cinque fotografi (Raymond Depardon, Joseph Koudelka, Robert Frank, René Burri, Fouad ElKoury).

Nel 2008, durante il suo terzo viaggio, Basilico sembra avvicinarsi anche alla fotografia a colori e Christian Caujolle dirà poi che «lui, che aveva spesso detto di preferire il bianco e nero ‘più vicino al disegno’, e di odiare – in fotografia – i cieli azzurri, lavora a colori senza preoccuparsi più di tanto delle regole, se non quella che, sul momento, lo sollecita a scattare. Osservazione documentaria, come sempre, ma senza alcuna volontà di dimostrazione, anche se l’attenzione dell’architetto di formazione all’evoluzione urbanistica è costante».

A Beirut, luogo prediletto per una serie di affabulazioni, ci tornerà ogni volta accompagnato dalla sua capacità documentaristica, spesso anche (giustamente) per la rivista Domus, per cui racconterà i cambiamenti/ricostruzioni che, nel 2008 erano ormai quasi completate. Nel 2011 tornerà per l’ultima volta nell’affascinante città mediorientale che oggi, senza guerre e bombardamenti, continua a vivere un percorso sempre e comunque imprevisto e accidentato.