Qualche anno fa Leonardo Seeber, geologo della Columbia University, ha rivelato che dal massiccio del Pollino passano le sorti del paese: bisogna tastare quel polso montagnoso per comprenderne le evoluzioni telluriche future. Allo stesso modo, in vista delle elezioni regionali di oggi, la Basilicata è passata dal filtro della politica nazionale e ha mostrato fenomeni che pongono interrogativi generali. I principali indicatori dicono che questa terra è in declino. Circola un senso di fatalismo e rassegnazione che non appartiene a una popolazione che alla metà degli anni Cinquanta, nel corso del suo Viaggio in Italia, Guido Piovene aveva descritto come «laboriosa, volitiva, tranquilla». Ma se si considerano le operazioni economiche degli ultimi venti anni, la contraddizione è evidente.

QUI SI SONO acquartierate le multinazionali dell’energia per estrarre petrolio e gas, il governo Meloni ha prorogato le concessioni fino al 2068. Qui la Fiat decise di insediare un grande stabilimento che voleva inaugurare il nuovo corso, dopo la grande ondata delle lotte operaie e della vittoria padronale, e sperimentare il toyotismo all’italiana. Sempre qui, soltanto 5 anni fa, Matera capitale europea della cultura ha fatto confluire investimenti e flussi turistici in forme inedite. Ciò nonostante, la Basilicata si svuota.

LO SPETTRO di una terra che invecchia, in cui non si fanno figli e che lascia andare via i giovani, aleggia nel dibattito pubblico ma la politica non riesce a metterlo a fuoco: un po’ di retorica, molte rimozioni. Prevale un rovesciamento logico pericoloso: «Lo spopolamento diventa la scusa per smantellare servizi o chiudere ospedali – dice Paolo Fanti, segretario regionale Flc Cgil – ma è il contrario: le persone vanno via perché mancano strutture sociali». Lo conferma anche un’indagine di Davide Bubbico dell’Università di Salerno: al di là della mancanza di lavoro, è l’assenza di un contesto sociale a far fuggire le persone.

QUANDO LA MODERNITÀ arrivò in Basilicata, nel dopoguerra, la parte del leone la fecero la riforma agraria e l’intervento pubblico. Potenza divenne una città solo coi palazzi di Ina Casa che allargarono il nucleo originario del villaggio borbonico. Le opere di bonifica e le infrastrutture della Cassa del Mezzogiorno resero meno impervio il territorio. Attorno a Matera, quando oltre la metà degli allora 30mila abitanti viveva nei suggestivi ma (allora) malsani sassi, vennero costruiti 5 villaggi per trasferirvi la popolazione.

IL FATTO CHE quelle grotte oggi siano meta ambita di turismo internazionale e costituiscano un asset immobiliare è ulteriore esempio della Lucania come metafora del paese: finiscono sul mercato globale, al prezzo deciso da un algoritmo della Silicon Valley, i gioielli di famiglia scavati nella pietra. La shock economy del terremoto del 1980, il cui cratere ha coinvolto tutti 131 comuni lucani, è stato anch’esso fonte di quattrini pubblici e ridefinizione del territorio. Antropologi e romanzieri hanno riconosciuto nelle lunghe opere post-1980 il fenomeno dei «paesi senz’anima». Ad esempio Palmira, rifatta di sana pianta come Palmira nuova: «Niente più archi e gradini, solo palazzine e marciapiedi, viali e semafori» annota lo scrittore Giuseppe Lupo, autore di L’ultima sposa di Palmira.

QUESTA MODERNIZZAZIONE forzata, scaturita dal fiume di soldi della ricostruzione, aspetta ancora di essere governata. Antonio Placido è stato sindaco di Rionero in Vulture, il paese del meridionalista Giustino Fortunato, e parlamentare di Sel: «Le occasioni di sviluppo non devono essere accolte passivamente. Hanno bisogno di un approccio proattivo. Se sbarca il più grande gruppo automobilistico italiano e il più grande stabilimento auto dell’Europa occidentale, ad esempio, devi porti il problema di come intrecciare alla produzione la ricerca universitaria». Ciò appare particolarmente beffardo se si considera che l’insediamento della Fiat a Melfi, pensava l’allora amministratore delegato Romiti in un piano strategico che venne svelato nel 1989 proprio dal manifesto, doveva avvenire nel «prato verde lucano».

L’IMMAGINE non si riferiva al contesto naturale: l’idea era che si dovesse colonizzare un terreno considerato «vergine» per rifuggire da una composizione del lavoro che avesse esperienza o memoria delle lotte della classe operaia. Solo in questo modo, pensava il management torinese, assieme alle braccia, i lavoratori avrebbero messo al lavoro anche il cervello, quel quid in più necessario per la nuova logica produttiva. «Da Marchionne in poi, l’ateneo è stato escluso – è la ricostruzione di Placido -. La regione, che sull’università aveva investito, non ha mosso un dito. Dunque, quando cambia la fase e si ritira tutto quanto, non hai paracaduti possibili».

PER IL PETROLIO questa attitudine predatoria è ancora più clamorosa. «Le grandi aziende qui non hanno mai avuto l’obiettivo di costruire delle filiere locali e di qualificare l’occupazione. Ciò è avvenuto solo parzialmente – sostiene il sociologo Bubbico -. In parte questo riguarda anche le aziende dell’alimentare (Ferrero, Barilla, Coca Cola): al di là degli investimenti avvenuti, ad esempio in Ferrero, l’occupazione nelle attività di ricerca e sviluppo è assente». Tutto ciò interroga anche la politica: «Le imprese fanno il loro gioco – prosegue Bubbico -. Il punto è l’assenza di una chiara strategia regionale, anche nei precedenti governi di centrosinistra. C’è stato un deficit istituzionale nel saper indirizzare le risorse economiche, con il risultato di rapportarsi con le imprese solo sul mantenimento dell’esistente». Rosanna Salvia, professoressa associata di economia agraria all’UniBas: «Hanno proposto un’economia estrattiva. La gran parte delle risorse viene drenata all’esterno. Le royalties del petrolio sono utilizzate per potentati locali e settori che hanno ricaduta limitata. O per finanziare spesa corrente, a fronte della riduzione dei finanziamenti statali».

NELLO STUDIO Le basi morali di una società arretrata il sociologo statunitense Edward Banfield trasse il concetto di «familismo amorale» dall’osservazione durata 10 anni a cavallo tra Quaranta e Cinquanta del Novecento di un paese che per convenzione chiamò «Montegrano». Si trattava di Chiaromonte, in Provincia di Potenza ai confini della Calabria, nel quale oggi vivono poco più di 700 anime. La sentenza di Banfield è dura: descrisse una comunità che non riusciva ad agire in forma collettiva, rannicchiata nella difesa dei propri piccoli nuclei di sangue. Si disse poi, non senza ragioni, che questa analisi era viziata da errori dal punto di vista della metodologia della ricerca e dai pregiudizi culturali dell’autore. Se tornasse nella Basilicata postmoderna forse parlerebbe di «capitalismo amorale», di un paradigma estrattivo che ha il solo scopo di autoperpetuarsi e che si è impadronito di questi luoghi per lucrare sulle diverse forme di bene comune, che si tratti di materie prime, del patrimonio naturale o della cultura e della libera cooperazione della gente.