Gli occhi sono tutti puntati su Barcellona: i risultati che daranno le urne stasera segneranno il futuro politico del paese.
Lo spazio a sinistra del partito socialista, incarnato da Ada Colau, sindaca da 8 anni, è quello che ha più da perdere. Se riesce a mantenere la guida del comune (o perché il suo partito Barcelona en comú arriva primo, e quindi per legge le tocca l’incarico, o perché, come 4 anni fa, riesce a ottenere l’appoggio di abbastanza consiglieri) automaticamente si consolida anche il partito Sumar, guidato dalla ministra del lavoro e vicepresidente del governo spagnolo Yolanda Díaz. Non a caso Díaz è venuta ben tre volte a Barcellona ad appoggiare la sindaca: è l’unico grande comune spagnolo, assieme a Valencia, dove la sinistra vicina a Podemos è ancora è al governo. Non solo. Colau è riuscita dove Díaz per ora ha fallito: consolidare dentro Barcelona en comú tutti i partiti della galassia viola: da Izquierda Unida a Podemos, fino ai rossoverdi e a tutte le correnti che oggi si riconoscono in Sumar. Colau è un referente politico di primo piano: la sua sconfitta sarebbe un duro colpo per le aspettative della sinistra nelle elezioni generali di fine anno.

I sondaggi danno da mesi un testa a testa fra 4 opzioni: la 49enne Colau, l’ex sindaco (sconfitto da Colau nel 2015) Xavier Trias, 76 anni, l’ex vicesindaco della stessa Colau, il 53 enne socialista Jaume Collboni (dimessosi inaspettatamente per guidare una campagna elettorale anti-Colau) e infine l’ottantenne Ernest Maragall, rappresentante di Esquerra Republicana e che fu, 4 anni fa, il vincitore per un pugno di voti. Esquerra guida il governo catalano: un risultato deludente sarebbe un brutto segnale.

Campagna elettorale straniante: i socialisti hanno governato con Colau, e Esquerra ha appoggiato quasi tutte le iniziative del governo comunale. Ma entrambi si sono affannati a screditare, assieme a tutti gli altri candidati, il modello di città portato avanti da loro stessi: una mobilità ottenuta sottraendo spazio alle auto, con pedonalizzazioni di intere zone (i cosiddetti superblock, presi a modello in tutto il mondo), attenta all’ambiente, che si adatta al cambiamento climatico, con una spesa sociale record (più di 200 euro per abitante, la maggiore di qualsiasi altra capitale di provincia spagnola), che ha lanciato la prima impresa elettrica pubblica, e istituito il dentista pubblico (che in Spagna non entra nel sistema sanitario), ha messo un freno al turismo sregolato e ha dato per la prima volta impulso all’edilizia pubblica costruendo 6.000 appartamenti in 8 anni.

Il socialista Collboni spera che l’effetto Sánchez lo trascini al primo posto, e, si è affannato a mostrarsi come quello che ha tutelato Colau davanti agli investitori internazionali e ai poteri forti. Durante la campagna ha flirtato con il candidato della destra nazionalista moderata Xavier Trias, paventando la possibilità di un’alleanza per sbancare Colau. Mentre Colau ha chiarito che cercherà l’appoggio di socialisti ed Esquerra (oggi insieme hanno 28 seggi su 41), Maragall ha detto che mai farà sindaca Colau. Promesse che rischiano di dimenticarsi presto: la stessa Colau nel 2019 mantenne inaspettatamente la guida della città grazie all’appoggio anche dell’ex premier francese Valls, che rappresentava un partito di destra, Ciutadans, e che si è poi ritirato dalla politica spagnola.

Gli altri partiti si disputano pochi seggi: se il Pp supererà la soglia del 5%, potrebbe ottenere un paio di seggi (come ora); ma molto dipenderà dai risultati di Vox (per ora senza rappresentanti a Barcellona) o di altri partiti eredi di Ciudadanos, ormai in via di sparizione. Infine c’è l’incognita Cup, il partito indipendentista assembleario di estrema sinistra: nel 2015 ottenne due rappresentanti, ma nel 2019 no.