Per fortuna, anche in questi tempi grami, qualche motivo di festeggiare c’è. Dopodomani, sabato, come ogni anno il 23 aprile, si celebra la «Giornata mondiale del libro e del diritto d’autore». In questi termini, nulla di eccitante. (Da tempo il numero delle giornate mondiali dedicate a nobili cause non fa che aumentare, nella progressiva indifferenza generale e con dubbi diffusi sulla reale utilità di queste iniziative). Ma come sa chi si sia trovato a Barcellona in questa data, lì la festa c’è, ed è straordinaria: le strade del centro sono affollatissime di persone di tutte le età che si fanno largo tra bancarelle coperte da una quantità inverosimile di volumi e di rose, in onore alla consuetudine che impone di dare in dono alle persone amate e amiche un libro e un fiore.

Sarà sicuramente così anche stavolta, e forse di più, considerando che abbiamo alle spalle (insomma, si spera) il lungo periodo della pandemia. Lo sa bene, e lo pregusta, Marta Ramoneda, fondatrice della bellissima piccola catena di librerie «La Central», che – intervistata da Jacinto Antón su El País – dice che «sarà un appuntamento estenuante», ma anche che «noi librai non vediamo l’ora di tornare alla normalità». Intendendo per «normalità» appunto la gioia di ritrovarsi insieme, uniti dal piacere della lettura.

Una grande festa per tutti e in particolare, dice Ramoneda, proprio per i librai, dato che «in un solo giorno si fattura quanto in tutta la Fiera del Libro di Madrid, o mediamente in un mese normale».
Nulla di strano, quindi, che per l’edizione 2022 di Sant Jordi (questo il nome della festa catalana da cui ha preso origine nel 1995 la decisione dell’Unesco di estenderla a livello globale) Barcellona abbia fatto le cose in grande, come sottolinea, ancora su El País, Ivanna Vallespín: «Circa duecento bancarelle di rose e libri si concentreranno tra la Gran Via a Diagonal: in tutto un’area pedonale di 140mila metri quadrati dove nemmeno biciclette o scooter potranno circolare», a cui si aggiungeranno altri spazi sparsi in sette quartieri della città. L’obiettivo è di eguagliare, se non superare, i risultati ottenuti nell’ultima edizione della festa prima della pandemia, quella del 2019, in cui sono stati venduti un milione e 600mila libri, per un fatturato complessivo di 22 milioni di euro.

Insomma, viva Sant Jordi, a Barcellona e in tutto il mondo. Ma a quelli che, pure in un momento di festa, non riescono a dimenticare ciò che succede altrove, si consiglia la lettura dell’intervista-ritratto di Vladimir Sorokin che Alexandra Alter ha pubblicato sul New York Times in occasione dell’uscita in inglese di alcuni titoli dello scrittore russo, capace con i suoi libri, «simili a un incubo assurdo», di «trovare il vocabolario giusto per articolare la verità», come ha detto di lui il collega Gary Shteyngart. Sorokin, che per caso ha lasciato Mosca tre giorni prima dell’invasione in Ucraina e adesso teme di rientrare perché è tra i non molti autori russi ad avere denunciato senza mezzi termini la guerra, è poco noto nella sfera anglofona, mentre in Italia diversi suoi libri hanno trovato qui un pubblico appassionato, se non numeroso – libri come La tormenta (Bompiani 2016) e ancora di più La giornata di un oprinik (Atmosphere 2014, tradotto come il precedente da Denise Silvestri), dove l’omaggio ai classici, da Turgenev a Tolstoj, si combina con una sovversione dei generi tipicamente postmoderna, e dove la violenza è pervasiva. Ma non potrebbe essere altrimenti, dice lo stesso Sorokin: «Sono cresciuto in un paese dove la violenza era nell’aria. E quando la gente mi chiede perché c’è così tanta violenza nei miei libri, dico loro che ne sono stato impregnato, anzi marinato, dalla scuola materna in poi».