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Bankitalia smonta l’ottimismo del governo

Bankitalia smonta l’ottimismo del governo

Melonomic L’ottimismo distribuito in questo ultimi mesi a piene mani, governo Meloni in testa, sulla rapidità della ripresa dell’economia italiana, ha subito una prima autorevole smentita con l’uscita del nuovo bollettino economico

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 luglio 2023

L’ottimismo distribuito in questo ultimi mesi a piene mani, governo Meloni in testa, sulla rapidità della ripresa dell’economia italiana, ha subito una prima autorevole smentita con l’uscita del nuovo bollettino economico di Bankitalia. La presunta lepre dell’economia europea – così gli apologeti l’avevano definita – non si è ancora trasformata in un bradipo, ma certamente la sua corsa appare azzoppata.

Bankitalia ridimensiona le previsioni di crescita del nostro Pil portandole per l’anno in corso a +1,3%, a +0,9% per il 2024 e a 1,0% per il 2025. Non vi sarebbe da stupirsi per chi avesse seguito l’andamento della produzione manifatturiera del nostro paese che, oltre che evidenziare gli irrisolti problemi strutturali, qualitativi e dimensionali, ha risentito di un quadro internazionale ed europeo tutt’altro che favorevole. Dato il livello di integrazione del nostro settore produttivo con le maggiori economie europee era difficile aspettarsi un quadro differente. Se la Germania entra in recessione tecnica le conseguenze per la produzione industriale italiana non tardano a farsi sentire.

È vero, c’è stata la terribile esondazione delle acque in Emilia Romagna, una delle regioni più legate all’economia d’oltralpe tanto da potere essere considerata un’articolazione del sistema economico produttivo tedesco. Tuttavia, come osservano gli estensori del Bollettino, la produzione manifatturiera delle zone direttamente colpite dall’alluvione incide in modo relativamente contenuto su quella nazionale. Quindi sarebbe deviante considerare quel disastro ecologico come una delle cause determinanti del calo della produzione manifatturiera italiana.

Gli analisti di Bankitalia vedono una seconda causa della frenata della ripresa italiana nell’andamento meno brillante dei consumi rispetto all’attesa.

Anche qui, nessuno stupore se solo si pensa che le retribuzioni in due anni sono diminuite del 15% causa inflazione. Secondo Confcommercio nel bimestre aprile-maggio l’indicatore dei consumi non segna variazioni quantitative, quanto nella loro composizione. È cresciuta la spesa per servizi, mentre è diminuita quella per l’acquisto di beni. Il che trova un riscontro anche nei dati sull’occupazione, ove l’elemento di crescita, o meglio del recupero rispetto ai livelli pre-pandemici, porta marcatamente il segno del lavoro precario e dei contratti atipici. Tanto più, alla luce di questi dati, appare odiosamente di classe la decisione delle destre di affossare con un emendamento interamente soppressivo la proposta presentata dalle sinistre parlamentari sul salario minimo orario di nove euro. Una sorta di “guai ai vinti” che meriterebbe un’adeguata risposta a livello di lotta sociale.

Sull’inflazione i dati che Bankitalia ci fornisce sono quelli di 6% medio per quest’anno, con una previsione di diminuzione fino al 2,3% nell’anno successivo, per raggiungere il mitico 2% nel 2025. La curva discendente sarebbe garantita dal ribasso dei prezzi delle materie prime energetiche. E su questo è lecito elevare più di un dubbio. Non solo perché qualunque riferimento al quadro internazionale deve fare i conti con l’andamento, in intensità e durata, della guerra russo-ucraina, ma anche sulla considerazione, confortata dai dati empirici, che i costi energetici sono da noi assai vischiosi, ovvero alla loro discesa non corrisponde un automatico abbassamento dei prezzi. Sia perché il superprofitto è sempre cosa ambita, sia perché chi controlla i prezzi vuole immagazzinare anticipatamente negli stessi gli eventuali aumenti salariali. Anche quando questi non ci sono. Infatti gli unici sommovimenti in campo salariale potrebbero derivare nella seconda metà dell’anno – afferma la stessa Bankitalia – dall’erogazione di aumenti previsti nelle clausole di indicizzazione presenti in alcuni accordi nazionali per una quota più che contenuta di lavoratori. I contratti appena conclusi, come quello assai sofferto della scuola – con la non firma della Uil – riguardano addirittura un triennio del tutto trascorso (2019-2021). Parlare quindi di imprevedibilità della dinamica salariale a giustificazione del non abbassamento dei prezzi è una offesa al buon senso.

In effetti il comunicato che sintetizza i contenuti del Bollettino economico termina con l’assicurazione, evidentemente rivolta al mondo imprenditoriale, sul carattere del tutto aleatorio del rischio di una rincorsa tra prezzi e salari, D’altro canto anche il Fondo monetario internazionale considera come causa assolutamente determinante la poderosa crescita dei profitti, protagonisti di una corsa con pochi precedenti, qui sì da lepri, in un mondo squassato dalla pandemia e poi dalla guerra, senza soluzione di continuità. Il fallimento della Melonomics è quindi squadernato e con esso si chiarisce per l’ennesima volta che l’economia di guerra fa bene solo ai profitti.

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