Bangladesh, la repressione non ferma le lavoratrici tessili
Continua la protesta nelle strade di Dhaka per alzare il salario minimo Contrari gli industriali locali, mentre restano in silenzio gli acquirenti dei marchi occidentali. La premier Sheikh Hasina: «Se danneggiate le fabbriche tornerete disoccupate ai vostri villaggi»
Continua la protesta nelle strade di Dhaka per alzare il salario minimo Contrari gli industriali locali, mentre restano in silenzio gli acquirenti dei marchi occidentali. La premier Sheikh Hasina: «Se danneggiate le fabbriche tornerete disoccupate ai vostri villaggi»
In Bangladesh, nelle cinture manifatturiere a nord della capitale Dacca, non si fermano le proteste delle lavoratrici e dei lavoratori, nonostante la repressione violenta da parte delle forze di sicurezza, gli arresti, le incriminazioni per vandalismo e la morte di almeno 4 dimostranti.
Nelle settimane e nei giorni scorsi a Mirpur, Gazipur, Ashulia, Savar sono state decine di migliaia le lavoratrici scese in strada per rivendicare l’aumento del salario minimo, bloccando strade, traffico e portando alla chiusura di centinaia di fabbriche. Esito finale di un confronto che va avanti da aprile e che riguarda circa 4 milioni di lavoratori e lavoratrici tessili del Paese, forza-lavoro essenziale di un settore che rappresenta l’80% dell’export bangladese, pari a circa 50 miliardi di dollari annui, e circa il 18% del prodotto interno lordo.
FERMA LA RICHIESTA dei sindacati: chiedono di aumentare il salario minimo dagli attuali 8.000 taka (66 euro circa) a 25.000 (205 euro). Un aumento significativo, ma insufficiente per far fronte all’impennata dei prezzi dei beni alimentari, alla svalutazione della moneta rispetto al dollaro e all’inflazione record, ora al 9.93%. In attesa della decisione finale del governo guidato dalla prima ministro e leader della Lega Awami, Sheikh Hasina, nei prossimi giorni sono previste altre importanti manifestazioni.
Sono due gli eventi che hanno radicalizzato la situazione: a fine ottobre, la proposta da parte della Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (Bgmea), la principale organizzazione dei produttori ed esportatori, di portare a 10.400 taka (86 euro) il salario mensile. Poi, il 7 novembre, l’annuncio da parte del ministro del lavoro e dell’impiego, Monnujan Sufian: 12.500 taka (104 euro). Cifre inaccettabili per i sindacati. E inferiori – viene ricordato in un articolo su Sourcing Journal – al salario minimo mensile di sussistenza stimato sia dal Bangladesh Institute of Labour Studies (che lo fissa a 33.368 taka, 276 euro), sia dall’Asia Floor Wage Alliance, una rete di sindacati e organizzazioni del lavoro asiatici (che lo fissa a 51.000 taka, 422 euro).
GLI INDUSTRIALI DEL TESSILE bangladesi, fornitori dei materiali, si oppongono all’aumento. Ma frenano anche i grandi marchi internazionali, gli acquirenti, che esercitano pressioni sui fornitori affinché i prezzi rimangano bassi, a volte perfino inferiori ai costi di produzione. Da qui, le richieste crescenti affinché cambino atteggiamento: «Come Campagna Abiti Puliti abbiamo chiesto ai marchi di prendere una posizione chiara a favore delle richieste dei sindacati, ma ciò non è avvenuto, salvo alcune timide dichiarazioni e una sola di esplicito sostegno ai 23.000 taka», commenta al manifesto Debborah Lucchetti, presidente di Fair e coordinatrice nazionale della Campagna Abiti Puliti, sezione italiana della campagna internazionale Clean Clothes Campaign.
Il loro tentennamento è un fatto grave, spiega, «perché i principali datori di lavoro delle operaie in Bangladesh sono loro, i marchi internazionali, che beneficiano di lavoro a basso costo in un Paese la cui economia è quasi totalmente orientata alle esportazioni. I marchi tacciono perché sostenere le richieste sacrosante dei sindacati significa anche adeguare le proprie pratiche commerciali a un costo del lavoro più alto. Cosa che evidentemente non vogliono fare ma che è necessaria per consentire ai fornitori di pagare salari dignitosi ai quasi 4 milioni di lavoratori che fabbricano buona parte dei nostri vestiti».
A QUANTI TRA LORO RISCHIANO l’arresto, i gas lacrimogeni e la violenza istituzionale, vengono inviati messaggi intimidatori: «I lavoratori dell’abbigliamento devono essere consapevoli che dovranno tornare nei loro villaggi e vivere nella disoccupazione se causano danni alle fabbriche», ha dichiarato Sheikh Hasina, per la quale dietro le proteste ci sarebbe la mano del principale partito di opposizione, il Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp), che minaccia di boicottare le elezioni del prossimo gennaio se non verrà istituito un governo a interim, imparziale.
Nessuna motivazione politica dietro le proteste, ha precisato a Nikkei Asia Kalpona Akter, direttrice esecutiva del Bangladesh Center for Worker Solidarity (Bcws), citata due giorni fa anche dal segretario di Stato Usa, Antony Blinken, nel presentare alla stampa un nuovo Memorandum presidenziale sul rafforzamento dei diritti dei lavoratori, ovunque nel mondo.
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