Internazionale

Bangladesh in gabbia

Dacca, 14 settembre. Adilur Rahman Khan, segretario dell’organizzazione bangladese Odhikar, viene trasferito in carcere dopo la condanna foto Munir Uz Zaman/Afp via Getty ImagesDacca, 14 settembre. Adilur Rahman Khan, segretario dell’organizzazione bangladese Odhikar, viene trasferito in carcere dopo la condanna – foto Munir Uz Zaman/Afp via Getty Images

Asia Cresce la stretta sui diritti umani del governo guidato dalla prima ministra Sheikh Hasina. Vittime eccellenti gli attivisti di Odhikar e il Nobel per la Pace Mohammad Yunus

Pubblicato circa un anno faEdizione del 19 settembre 2023

Due anni di detenzione e una multa. È la sentenza emessa il 14 settembre dai giudici del Cyber Tribunal di Dacca contro Adilur Rahman Khan e Nasiruddin Elan, rispettivamente segretario e direttore dell’organizzazione bangladese Odhikar e noti attivisti per i diritti umani.

A distanza di dieci anni dalle prime accuse, grazie a una legge draconiana fortemente contestata dai giuristi internazionali, i due pagano la redazione di un’inchiesta sulle uccisioni extragiudiziali avvenute nel 2013 a seguito di proteste politiche dei partiti islamisti. Un’inchiesta che secondo il governo guidato dalla prima ministra Sheikh Hasina, leader della Lega Awami e al potere dal 2009, avrebbe danneggiato l’immagine del Paese con informazioni false (ma corroborate invece da osservatori indipendenti).

SUBITO DOPO LA SENTENZA, una coalizione di 39 organizzazioni per i diritti umani, dalle più note in Europa come Human Rights Watch e Amnesty International a quelle in America Latina, Asia, Africa, ha chiesto l’immediata liberazione dei due attivisti. Una risoluzione del Parlamento europeo ha sollevato la minaccia della revisione degli accordi che facilitano l’accesso dei prodotti bangladesi nel mercato dell’Unione. A cui si aggiunge un comunicato, più blando, dell’ambasciata statunitense a Dacca. Nella cui sede l’8 settembre si è dovuto rifugiare per alcune ore il vice-procuratore di Dacca Imran Ahmed Bhuiyan. Sospeso dall’incarico, e minacciato ripetutamente, per aver definito alcuni giorni prima come una persecuzione giudiziaria l’accanimento della magistratura contro il Nobel per la Pace Mohammad Yunus, il fondatore della banca di microcredito Grameen Bank.

ACCUSATO DI CORRUZIONE e di aver contravvenuto la legge sul lavoro, Mohammad Yunus non è nuovo a quella che in una lettera di fine agosto pubblicata sul New York Times e firmata da 170 personalità della politica e della cultura globali, incluso l’ex presidente Usa Barack Obama, viene definita «continua vessazione giudiziaria». Almeno da quando, nel 2007, ha fondato il partito Nagorik Shakti (Potere ai cittadini) con l’idea, poi accantonata, di presentarsi alle elezioni. Nel corso degli anni ha affrontato 166 cause civili e due penali, ricordano i suoi legali, che criticano l’inedita velocità con cui si svolgono le udienze, che negherebbe il diritto alla difesa. Anche per gli avvocati dei due membri di Odhikar, il processo non avrebbe rispettato il diritto alla difesa.

I CASI CITATI RIFLETTONO il crescente autoritarismo con cui la prima ministra Sheikh Hasina esercita il controllo sulla magistratura e il potere su un Paese da 170 milioni di abitanti, a pochi mesi dalle cruciali elezioni del gennaio 2024 che il principale partito di opposizione, il Bangladesh Nationalist Party (Bnp), minaccia di boicottare, a meno che Hasina non si dimetta e nasca un governo a interim che consenta elezioni libere e trasparenti. La stretta di Hasina si fa più energica, al contrario.
Il 5 settembre Ravina Shamdasani, portavoce dell’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, ha espresso profonda preoccupazione «per le continue intimidazioni e vessazioni attraverso procedimenti legali» nei confronti di Mohammad Yunus e dei «due leader della rispettata organizzazione per i diritti umani Okhidar, la cui colpa è stata certificare le responsabilità governative nelle esecuzioni extragiudiziali, particolarmente diffuse in Bangladesh, come le sparizioni forzate».

IL 29 AGOSTO, in occasione della Giornata internazionale delle vittime delle sparizioni forzate, Human Rights Watch ha sollecitato le autorità del Bangladesh ad «accettare l’offerta delle Nazioni Unite di sostenere una commissione d’inchiesta indipendente sulle sparizioni forzate da parte delle forze di sicurezza del Paese», in particolare da parte del Rapid Action Battalion, la famigerata forza paramilitare, sanzionata dal governo Usa nel dicembre 2021. Secondo il governo di Dacca, proprio il lavoro di documentazione dell’associazione Odhikar avrebbe portato a quelle sanzioni e alla compromissione del rapporto con Washington.

La prima ministra Sheikh Hasina condanna come interferenze indebite le critiche esterne, forte del crescente peso geopolitico del Bangladesh, che approfitta della competizione strategica in Asia tra Washington e Pechino, continuando a mantenere solidi rapporti con New Delhi. Prima del G-20, Hasina ha ospitato nella capitale bangladese il ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov. Subito dopo è arrivato il presidente francese Emmanuel Macron, che ha incassato la promessa di acquisto di 10 A350s della Airbus e promesso una “terza via”, dimenticandosi gli abusi dei diritti umani.

A NEW DELHI, AL G-20, Sheikh Hasina è stata fotografata sorridente accanto al presidente Usa, Joe Biden. Ma le foto di rito non cancellano la tensione: mesi fa, dopo che il Dipartimento di Stato ha limitato «il rilascio di visti a qualsiasi individuo del Bangladesh ritenuto responsabile o complice di aver minato il processo elettorale democratico», la lady di ferro asiatica ha accusato il governo Usa di voler forzare un cambio di governo. Per ora il Bangladesh Nationalist Party ha scelto la strada delle manifestazioni pacifiche, spesso represse dalle forze di polizia (il Dhaka Tribune annuncia l’acquisto dalla Turchia di 90.000 candelotti di gas lacrimogeno a lunga gittata). Ma continua a chiedere la nascita di un governo a interim. Il governo targato Lega Awami non cede. E ha intensificato la campagna di repressione del dissenso.

A volte, basta un post sui social per finire in carcere, con l’accusa di congiura contro lo Stato. Lo strumento legislativo più usato è la Legge sulla sicurezza digitale (Dsa), che il governo sta cambiando con la Legge sulla sicurezza informatica (Csa), la cui bozza finale è stata approvata il 30 agosto dal Parlamento. Per Nadia Rahman, vicedirettrice regionale di Amnesty International per l’Asia meridionale, non va approvata «poiché è in gran parte una replica della draconiana legge sulla sicurezza digitale (Dsa) che l’ha preceduta».

I PRIMI A ESSERE ACCUSATI in base all’Information and Communication Technology Act del 2006 (di cui è erede la Legge sulla sicurezza digitale del 2018) sono stati proprio Adilur Rahman Khan e Nasiruddin Elan, rei di un «resoconto non veritiero e immagini falsificate» contro le forze di sicurezza. Ma le falsificazioni sembrano altre.

Secondo un’inchiesta dell’agenzia France Press pubblicata il 7 settembre, in vista delle elezioni sarebbe in corso da settimane una campagna di disinformazione: «Centinaia di articoli che elogiano le politiche del governo del Bangladesh, apparentemente scritti da esperti indipendenti, sono apparsi sui media nazionali e internazionali, ma gli autori hanno credenziali discutibili, foto false e potrebbero anche non esistere».

MOLTI ARTICOLI, «fortemente favorevoli a Pechino e ferocemente critici nei confronti di Washington», sono stati pubblicati dall’agenzia di stampa statale cinese Xinhua. Pechino sostiene infatti senza indugio il governo di Sheikh Hasina. Il partito di opposizione, il Bangaldesh Nationalist Party, ha invece fatto capire a più riprese a Washington che, se tornasse al potere, limiterebbe la crescente influenza di Pechino nel Paese. A Dacca, intanto, i militari, vero ago della bilancia, stanno a guardare.

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