Il campo profughi di Makhmour è sotto assedio. Dopo quattro anni di insopportabile embargo imposto dal governo regionale del Kurdistan iracheno, ora è il governo centrale iracheno a minacciare i 13mila profughi curdi che lì vivono dagli anni Novanta, rifugio dopo la fuga dalla Turchia.

L’assedio è iniziato sabato. Subito i social media si sono riempiti di video che testimoniavano l’atto di forza delle unità speciali di Baghdad, accompagnate da veicoli blindati e ruspe. Un’azione militare contro una popolazione civile con l’obiettivo dichiarato di chiudere l’intero perimetro del campo con filo spinato e torrette militari.

Il tentativo di avviare i lavori ed entrare a Makhmour è durato per l’intera giornata di sabato, respinto dalla comunità che si è frapposta con i propri corpi all’esercito iracheno. Qualche lancio di pietre, a cui i militari iracheni hanno risposto aprendo il fuoco: due ragazzi sono rimasti feriti, secondo il comunicato del Knk (il Congresso nazionale del Kurdistan), uno in modo grave. E poi l’inizio di un presidio che dura ancora: i profughi hanno montato tende agli ingressi del campo e restano lì, per impedire lo sgombero del presidio e l’ingresso dei soldati. Donne, bambini, giovani e anziani cantano e ballano di fronte agli scudi dei soldati, anche di fronte a scene di violenza, camionette lanciate sui manifestanti in fuga.

Con il buio, nella notte tra sabato e domenica, l’esercito si è allontanato ma non ha abbandonato la zona. Resta lì, a circordare Makhmour con l’intero arsenale, ruspe, macchinari da lavoro e veicoli blindati. Non si entra e non si esce da sabato. Significa che non nessuno è autorizzato a lasciare il campo, né i lavoratori per raggiungere i rispettivi impieghi, né le ambulanze per portare fuori malati e feriti.

«Il progetto di sgomberare Makhmour è vecchio di almeno una decina di anni – ci spiega Tiziano di Uiki, l’Ufficio informazione del Kurdistan in Italia – Il campo è sotto tutela dell’Unhcr, per cui compiere azioni militari non è così semplice. Nonostante ciò l’aviazione turca bombarda con frequenza e dal 2019 il Krg ha imposto l’embargo. Cos’è cambiato stavolta? Che se prima la Turchia ordinava e il Kdp (il partito che governa la regione autonoma curda in Iraq, ndr) implementava, stavolta è il governo iracheno ad agire. Non si tratta più di singoli membri del governo, ma dell’esecutivo nel suo insieme».

Scene simili a quelle viste nell’aprile 2022 a Shengal, la regione nord-occidentale irachena da anni amministrata autonomamente dalla comunità ezida: all’epoca l’esercito iracheno – o per lo meno alcune unità più vicine al governatorato di Mosul e all’esecutivo turco – tentò un’azione di forza per smantellare le forze di autodifesa ezide e riprendere il controllo del territorio.

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«La politica è la stessa – continua Tiziano – Makhmour e Shengal vanno svuotate o per lo meno messe in condizioni di non nuocere. L’obiettivo finale è lo sgombero e la dispersione delle migliaia di persone che ci vivono. Non potendolo fare direttamente, perché il campo è gestito dall’Unhcr nel caso di Makhmour o perché significherebbe aggredire una popolazione sopravvissuta al genocidio dell’Isis nel caso di Shengal, creano prigioni a cielo aperto. Le isolano per rendere la vita insopportabile e costringere chi ci vive ad andarsene da sé».

Ad agire è una strategia di lungo periodo contro esperienze diverse di amministrazioni autonome, ispirate alla teorizzazione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Makhmour è dagli anni Novanta il primo tentativo riuscito di confederalismo democratico, lo stesso paradigma di società altra, democratica e di base che il mondo ha imparato a conoscere con la rivoluzione del Rojava, nella Siria del nord e dell’est. Shengal ha seguito: dopo la liberazione dall’occupazione islamista, a operare è un’autonomia democratica che guarda al confederalismo democratico.

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Entrambe zone ribelli che non intendono cedere il passo né al governo centrale di Baghdad né tantomeno al Kdp, responsabile nel 2014 con la sua fuga del peggiore massacro compiuto dallo Stato islamico in territorio iracheno.

Ieri, nel terzo giorno di assedio, a parlare è stato il co-presidente dell’assemblea democratica del popolo di Makhmour, Yusif Kara, che ha fatto appello a Baghdad perché ritiri le sue truppe e si apra al dialogo: «Non accettiamo questo blocco in alcun modo. Siamo in esilio da trent’anni. Non possono imporcelo. Vogliamo vivere con dignità. Siamo fuggiti dalla persecuzione di un nemico fascista e siamo diventati rifugiati in terra irachena. Dopo trent’anni di persecuzione, i residenti di Makhmour non accetteranno l’isolamento e l’imposizione di una prigione a cielo aperto».

Un appello al dialogo ribadito anche dal Knk che contro-accusa Ankara: l’aggressione è perpetrata contro una popolazione civile sotto la protezione dell’Onu, non contro «un covo di terroristi o un campo militare».