Aziz Hazara è un artista afghano trentenne il cui lavoro negli ultimi anni è stato riconosciuto a livello internazionale ed ampiamente premiato. Il video e la fotografia sono i media principali, la guerra e le conseguenze, nel paesaggio con cui lui è cresciuto, il tema che occupa tutti i suoi lavori.
A Berlino si è da poco chiusa la sua personale Dress Code alla Psm Galerie mentre in Italia alla Ica di Milano c’è stata la mostra dal titolo Condemnation. Attraverso le sue opere, l’artista rende evidente come la guerra in Afghanistan abbia consumato, contaminato e riconfigurato ogni aspetto dell’ambiente, trasformandolo in un terreno attivo per l’esercizio del potere e dell’influenza e al fine di impedire ogni tentativo di resistenza. Nella sua installazione fotografica su larga scala I am looking for you like a drone, my love (2021-2022) Hazara presenta una vista panoramica dell’enorme quantità di materiale di scarto, inclusi rifiuti elettronici, tecnologia militare e altri rifiuti lasciati dall’occupazione americana dopo il loro ritiro dalla base aerea di Bagram fuori Kabul. Questa immagine travolgente fornisce una testimonianza della realtà dei detriti materiali della guerra, del tributo ambientale e della sua presenza contaminante per la vita locale.
Con Aziz ci siamo conosciuti pochi giorni prima della presa di Kabul nel 2021, quando entrambi eravamo artisti in residenza e vicini di studio al Künstlerhaus Bethanien di Berlino. Giorni di mezza estate, ferragosto in Italia, nei quali ci si aggiornava di continuo incrociando le notizie dalla Germania, dall’Italia e da quello che si riusciva a sapere da Kabul. Una presa diretta dove i confini della fortezza Europa, che insieme ai suoi alleati scappava da una terra priva di pace, sfruttata e martoriata, si ergevano in questa occasione sempre più massicci e obsoleti.
Ci siamo sentiti di recente, dopo i convenevoli aggiornamenti sulle rispettive famiglie Aziz mi ha spiegato che a Kabul le cose vanno relativamente meglio, dal periodo subito successivo alla fuga degli occidentali, e nel dettaglio mi ha indicato che la zona calda della guerriglia di sommossa si è ormai spostata verso l’Asia centrale e attualmente è nel nord dell’ Afghanistan che la situazione è più turbulenta.
Una prima cosa tengo a chiederti: come ti senti con l’idea di casa?
Di sicuro la mia casa è Kabul! Mi sento a mio agio in Europa occidentale ma non è certo casa anche se ci vivo già da un po’. La cosa assurda è che tante delle persone che conosco e che rendono Kabul «casa» sono in giro per l’Europa e l’Occidente, sono fuoriuscite e vivono altrove. Molti amici con cui sono cresciuto vivono a Marsiglia, a Parigi o Francoforte e ritrovarci in queste città restituisce una simultanea estraneità e vicinanza. Sono andato a trovare un amico in un piccolo paesino austriaco lungo la frontiera con l’Italia e vederlo alla stazione ferroviaria nel mezzo dell’occidente mi è parso stranissimo. Kabul è una città il cui paesaggio è – ed è stato – in costante cambiamento e dislocamento e dalla quale la generazione precedente emigrava in Iran, Pakistan e comunque nell’area. In questi ultimi vent’anni, a causa della guerra, il dislocamento delle persone e l’emigrazione avviene su scala globale. Adesso ho tanti amici afghani che vivono anche in piccoli paesini in Italia.
Allo stato attuale delle cose Kabul sarebbe ancora casa?
Ho già vissuto con l’occupazione talebana, come tante altre, sono cresciuto con la mia città e il suo paesaggio occupati. Le persone che vivono a Kabul sono abituate ad adottare stili di vita a seconda degli occupanti. In 2001 c’erano gli americani, gli inglesi e i tedeschi giusto? Il «dress code» era quindi jeans e maglietta, Caleb il mio vicino si era tagliato la barba e comprava jeans al mercato di seconda mano degli americani.
Certo, in Italia in Campania vicino alla base Nato di Gaeta c’è stato per decadi un famoso mercato americano, poi divenuto vintage, che riforniva mezzo paese…
Caleb adottando questo stile occidentale diventò poi il preside di una scuola. Dopo aver comunque combattuto ed aver organizzato un presidio vicino casa con barba e abito. Adesso molti cittadini afghani delle città hanno fatto crescere di nuovo le barbe, usano abiti lunghi non più jeans e t-shirt.
Il paesaggio in termini architettonici e di natura come è cambiato?
Durante l’invasione sovietica si viveva in costruzioni sovietiche che sono poi state sostituite da quelle occidentali e americane e intere generazioni sono cresciute o con un paesaggio e certe condizioni architettoniche o con un altro, a seconda delle occupazioni. Adesso adolescenti cresciuti nei campi di rifugiati a maggioranza talebana sono di nuovo a Kabul mentre noi ne siamo di nuovo fuori. A Berlino c’è un mix di diverse generazioni, gli afghani evacuati dai sovietici e quelli evacuati dagli americani e le loro conversazioni su Kabul sono assurde, memorie di architetture differenti e contrastanti, che spesso si contraddicono.
Come fosse una storia vivente della guerra fredda e delle sue conseguenze nei paesi occupati…
Kabul è una città per tutti, appena ci entri la senti tua, a prescindere dalle origini e dall’etnia. Ma questa sensazione non dura mai abbastanza. Vivendoci, dopo una dozzina di anni al massimo, tutto cambia e il sentimento di appartenenza anche. Si volatilizza. Se cresci a Roma o a Berlino puoi sentire queste città tue per decadi e anche un’intera vita, con Kabul neanche un albero o una patata possono durare per tutta la loro esistenza in città.
Certo. Immagino che le montagne e i loro mondezzai che hai incluso in uno dei tuoi lavori («Coming Home» 2022, ndr) hanno più possibilità di rimanere e durare nel territorio che le persone.
C’è un carro armato sovietico a ovest di Kabul che si sta fondendo con la montagna. Da anni lentamente va sempre più affondo, mi ricordo che 15 anni fa era sulla superficie, adesso è rimasta fuori solo la parte superiore. Accanto, hanno costruito una moschea che si staglia nel cielo: un’immagine è indicativa e assurda allo stesso tempo.
In «Bushka Bazi» (2023), una nuova installazione sonora multicanale, usi delle taniche di plastica gialla come altoparlanti. Ognuna riproduce registrazioni dei paesaggi sonori di Kabul raccolti nell’ultimo decennio. Puoi raccontare qualcosa al riguardo?
Tempo fa ero seduto in studio guardando a Kabul da Kotti (la zona di Kreuzberg a Berlino culla di dissidenze, soggettivazioni e questioni urbane forgiata da palazzoni popolari ad anfiteatro che affacciano sulla metro Kottbusser Tor, ndr) e pensavo alla performatività degli oggetti (una delle preoccupazioni del mio lavoro), e quale fosse l’oggetto che ha in comune varie occupazioni di guerra dell’Afghanistan: le bushka gialle! Sono state protagoniste negli anni di guerra, come nell’economia degli aiuti, per trasportare acqua, o durante il covid per portare riso e legumi ai cittadini in zone isolate, sono state usate dai talebani come ordigni rudimentali. Durante la «Guerra al Terrore» gli occidentali arrivarono con risorse militari ingenti e ipertecnologiche; da parte della popolazione afghana la guerra è stata combattuta con le bushka! L’ultimo strike americano di quella guerra fu verso un deposito dei contenitori gialli alle porte di Kabul pensando di colpire una base dell’Isis, proprio perché c’erano così tante. Sono un oggetto che rappresenta una collettività, ogni afghano ne ha trasportato almeno una negli ultimi 40 anni.