Mentre Putin ammassa armi nucleari a sigillare i confini dell’Europa da fuori, c’è una questione che, mi pare, si staglia come un’evidenza. Che la nostra paura ha bisogno di annunci novecenteschi (lo spettro nucleare) mentre le armi realmente usate in campo sono più e meno sofisticate al contempo. Sono i corpi umani dei cosiddetti migranti con cui si caricano i cannoni nel mondo. Sono quelli dei milioni di sfollati, dei fuggiti a piedi oltre i confini o portati via lungo i corridoi umanitari. Sono queste le munizioni più efficaci delle guerre del presente. Caricare i bus, mirare. Fuoco.

Putin non è il primo e non sarà l’ultimo a usarle e a creare più scompiglio di quanto producano, a quanto sembra, le sanzioni dell’Occidente alla Russia. C’è una sottile reticenza tattica nel non pronunciare la frase: sono i vostri nemici, vi condanniamo a prendervene cura.

BOMBARDARE A TAPPETO per produrre munizioni in carne e ossa che si spostano poi, iniziando così un disperante peregrinare, verso un’Europa che non li vuole. Che farebbe di tutto per disfarsene, incluso lasciarli crepare nel mare. E la cui reticenza nel chiamarli, col loro nome, «nemici», in realtà non funziona perché la verità si sente anche senza parole. Pullman incolonnati verso i confini europei, fotografie strazianti di famiglie separate al confine. L’occidente documenta così la breccia aperta dai conflitti di oggi. Siria, Ucraina, i massacri africani, le guerre degli altri, e le guerre nostre. Tramontata l’era degli scudi umani, ora sono gli ordigni umani a fare la differenza: è questa la guerra batteriologica in atto. Continente dell’umanesimo, vediamo di cosa sei capace. E il continente dell’umanesimo, in ginocchio, accoglie o respinge, ma nei fatti soccombe, manda carrarmati, firma trattati per la spartizione dei corpi.

C’è un libro che oggi va letto perché dice quello che nessuno oggi vuole sentirsi dire, ed è La guerra invisibile, di Maurizio Pagliassotti (Einaudi). Di questo libro, che andrebbe letto prima che dalla classe politica – quasi tutta imbrigliata dentro un malcelato o esibito supporto alle guerre – dai ragazzi e dalle ragazze delle scuole italiane. «Non li chiamerò più migranti”, scrive questo reporter che in tre mesi di viaggio ha attraversato in solitudine, con uno zaino e un telefono la rotta balcanica dalla Turchia al Monginevro. “È necessario riconoscere a queste persone la dignità di quello che sono: i nostri nemici».

PERCHÉ È COSÌ importante, mentre scorriamo le immagini dei caccia sui cieli scandinavi, le strette di mano tra Putin e Xi Jinping, leggere questo libro, di cui il sottotitolo – Un viaggio sul fronte dell’odio contro i migranti – è quello che conta? Perché Pagliassotti compie un gesto politicamente fortissimo: percorre quel tragitto al contrario, partendo dal privilegio delle Alpi su cui si avvicendano di giorno gli sciatori e di notte i «migranti» e finendolo in Turchia. «Sono un bianco ricco europeo – scrive -, un euro che cammina a cui tutto è permesso». Passare Trieste, varcare i confini degli ex Balcani, percorrere seimila chilometri, attraversare dieci paesi, sostare sotto le recinzioni europee, le uniche a mostrare in tutta evidenza tra la tolleranza e l’accoglienza, c’è appunto l’odio.

PERCHÉ, MENTRE le bandierine ucraine sventolano in Europa e in America, mentre la guerra del testosterone dei «grandi» devasta il futuro del mondo, bisogna seguire questo reporter? Perché fare il percorso al contrario significa mettersi nella condizione di incontrare, e non solo di accogliere o salvare. Perché è questo il vero antidoto al paternalismo di tanta sinistra o al populismo di destra.

E CONSENTE DI incontrare esseri umani bloccati, a volte da anni, in mezzo al guado, in questa tragedia epocale, che ha travolto ogni angolo del pianeta: gli avanzi di guerre non di rado innescate da qui, dalla parte del mondo che si è auto-assegnata il «bollino» della democrazia. Che sono partiti dalla Siria, dall’Afghanistan e ancora non sono arrivati e forse non arriveranno mai, e che proprio per questo non possono essere chiamati migranti. «Il migrante è colui, o colei, che si muove, parte e va da qualche parte a fare qualcosa . Da qui non si muove nessuno se non per essere rimbalzato da qualche altra parte perché il trafficante di turno gli vende a poco prezzo uno scarto di passaggio o uno dei sentieri coperti di immondizia che inesorabilmente portano a una dose di botte e umiliazione». Oppure brucia tra le fiamme di un incendio reale, come è successo lunedì notte ai migranti del centro di Ciudad Juárez, mentre dal Messico cercavano di passare il confine Usa.

MENTRE CI CHIEDONO di guardare verso Kiev, e mentre lo facciamo ogni giorno, giriamo però lo sguardo anche lungo la rotta delle altre «migrazioni», figlie di altri conflitti. E capiremo che cosa avverrà appena i riflettori si spegneranno. Guardiamo lì dove, finita l’attenzione mediatica, gli esseri umani («I topi vivono meglio, i topi hanno più dignità »), sono stati dimenticati in un inferno perenne di baracche.

ABBIAMO, con Maurizio Pagliassotti, il coraggio di dire una verità scandalosa, mentre guardiamo Kiev: «Secondo le cifre ufficiali da questi corridoi sono passati in due settimane circa un milione e mezzo di profughi, quasi esclusivamente donne e bambini e uomini anziani . Le poche centinaia, o migliaia, che sono bloccate nei Balcani cosa sono? Umanità di una serie inferiore?». No, sono i bossoli del caricatore sputati dalla canna dopo lo sparo.