Agli inizi settembre il presidente della Sardegna, Christian Solinas, ha dichiarato che i turisti negli ultimi tre mesi erano stati 3,6milioni e che si prevedeva una stagione lunga, fino ad ottobre almeno. Un sovraffollamento delle città e delle spiagge che mi hanno spinto verso l’interno, nella Barbagia, regione montuosa ai lati del Gennargentu dove si rifugiarono e resistettero i sardi quando arrivarono cartaginesi e romani, impervia, aspra, con una cultura arcadica e millenaria che sembra, per chi viene da fuori, sempre lì, a portata di mano, anche solo osservando i volti scavati di chi parlotta ai crocicchi. Basterebbero le inclinazioni secolari degli abitanti o il favore delle greggi di pecore che spuntano sulla strada, i cavalli liberi, i boschi di leccio da sughero depilati fino a metà del tronco o le lunghe siepi di fichi d’india a incorniciare giardini, per riempire pagine di impressioni.

Da Cagliari, in quasi tre ore, si raggiunge Bitti, in provincia di Nuoro. L’occasione è stata «Autunno in Barbagia», un festival itinerante che dal 2001 si snoda nei vari paesi, Oliena, Sarule, Dorgali, Tonara e così via, per un totale di 32 eventi, da settembre al 18 dicembre, durante i fine settimana. Primo appuntamento proprio a Bitti, 2500 abitanti in un promontorio circondato da colline irregolari che, malgrado la siccità, il sole vivido di quei giorni restituiva cangianti. Colline che sembrano un riparo e buone per il trekking ma che, complice due torrenti «tombati», hanno cancellato il paese nell’alluvione del novembre 2020 causando tre vittime, Piazza Asproni diventò un lago di fango mentre oggi è tornato il bianchissimo salotto della città dove i bambini si rincorrono senza sosta. Da lì parte corso Vittorio Veneto e con una mappa si possono seguire una quarantina di punti in cui apprezzare e conoscere l’enogastronomia e le tradizioni: torrone, tzitzoneddos, strumenti musicali, pelli, erbe essiccate, gurugliones, formaggio arrosto, degustazioni, cestini, purputza di maiale, eccetera. Un’intensa miscellanea di sapori, odori e di riconoscenza verso chi si ferma, tanto che negare l’offerta di un biscotto o di una forchetta su cui è infilzata una costina appena grigliata, parrebbe un grave sgarro. Uno degli appuntamenti principali, scopro lì, è «S’Isposu», la rappresentazione di un matrimonio tradizionale di una giovanissima coppia, con tanto di cerimonia, corteo e balli sardi, qualcuno rompe un piatto, c’è chi brinda. Il lungo copricapo nero, le coppole, le camicie e i gilet degli uomini si alternano ai coloratissimi scialle viola e ai corsetti blu, gialli, verde delle donne. Tutto ha il sapore della terra e la complessità del paganesimo, fra i vicoli stretti riecheggiano melodie gutturali dalla solennità religiosa, Bitti è il paese dei cantu a tenores, quattro voci ad evocare il muggito, il belato, il suono del vento e infine la parola. Peter Gabriel venne qui a incontrare i Tenores, pare che domandò se non fosse invece atterrato a Cuba.

Uno sforzo collettivo incentrato sull’accoglienza, quasi a cancellare la notoria imperscrutabilità di chi abita nell’entroterra, così distante dall’immaginario di frenesie della costa o dalle memorie mitizzate del banditismo. Anche per sfatare questo luogo comune, credo io, ci sono le cortes apertas, i cortili delle case private messe a disposizione sia a chi vuole dare un’occhiata a questi piccoli, ordinatissimi e discreti paradisi, sia a chi desidera ascoltare una storia da uomini e donne che si prodigano, senza affanno ma con puntualità, nel raccontare i sacrifici e la dignità di vivere al centro di un’isola troppe volte vessata dal Continente o, più prosaicamente, come produrre un buon formaggio. Una loquacità contagiosa e inaspettata per un contesto che si tende a descrivere, forse troppo frettolosamente, coi caratteri dell’immobilismo sociale e culturale.

Nello slargo davanti alla posta sento urlare come per un regolamento da Codice barbaricino, kimbe, tres, murra, le mani destre cadono a ritmo come martellate nel crocchio formato da quattro ragazzi in cerchio, concentratissimi con la sinistra tengono il costato come a contenere lo sforzo di contare. La morra è un antichissimo passatempo, più che un divertimento sembra un teatro di duellanti pronti a giocarsi la vita. Voglio dire che ogni gesto qua sembra spostato verso l’assolutizzazione, nulla che viene detto o fatto sembra casuale o ricercato, è sostanzialmente vero: un sorriso è un sincero benvenuto e non l’aspettativa di venderti un prodotto, specialmente se è la propria terra.