Autunno in Barbagia, la lunga stagione di un festival
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Autunno in Barbagia, la lunga stagione di un festival

Luoghi Da Cagliari, in quasi tre ore, si raggiunge Bitti, in provincia di Nuoro, per «Autunno in Barbagia», un festival itinerante che dal 2001 si snoda nei vari paesi, Oliena, Sarule, Dorgali, Tonara e altri, per un totale di 32 eventi, da settembre al 18 dicembre
Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 3 dicembre 2022

Agli inizi settembre il presidente della Sardegna, Christian Solinas, ha dichiarato che i turisti negli ultimi tre mesi erano stati 3,6milioni e che si prevedeva una stagione lunga, fino ad ottobre almeno. Un sovraffollamento delle città e delle spiagge che mi hanno spinto verso l’interno, nella Barbagia, regione montuosa ai lati del Gennargentu dove si rifugiarono e resistettero i sardi quando arrivarono cartaginesi e romani, impervia, aspra, con una cultura arcadica e millenaria che sembra, per chi viene da fuori, sempre lì, a portata di mano, anche solo osservando i volti scavati di chi parlotta ai crocicchi. Basterebbero le inclinazioni secolari degli abitanti o il favore delle greggi di pecore che spuntano sulla strada, i cavalli liberi, i boschi di leccio da sughero depilati fino a metà del tronco o le lunghe siepi di fichi d’india a incorniciare giardini, per riempire pagine di impressioni.

Da Cagliari, in quasi tre ore, si raggiunge Bitti, in provincia di Nuoro. L’occasione è stata «Autunno in Barbagia», un festival itinerante che dal 2001 si snoda nei vari paesi, Oliena, Sarule, Dorgali, Tonara e così via, per un totale di 32 eventi, da settembre al 18 dicembre, durante i fine settimana. Primo appuntamento proprio a Bitti, 2500 abitanti in un promontorio circondato da colline irregolari che, malgrado la siccità, il sole vivido di quei giorni restituiva cangianti. Colline che sembrano un riparo e buone per il trekking ma che, complice due torrenti «tombati», hanno cancellato il paese nell’alluvione del novembre 2020 causando tre vittime, Piazza Asproni diventò un lago di fango mentre oggi è tornato il bianchissimo salotto della città dove i bambini si rincorrono senza sosta. Da lì parte corso Vittorio Veneto e con una mappa si possono seguire una quarantina di punti in cui apprezzare e conoscere l’enogastronomia e le tradizioni: torrone, tzitzoneddos, strumenti musicali, pelli, erbe essiccate, gurugliones, formaggio arrosto, degustazioni, cestini, purputza di maiale, eccetera. Un’intensa miscellanea di sapori, odori e di riconoscenza verso chi si ferma, tanto che negare l’offerta di un biscotto o di una forchetta su cui è infilzata una costina appena grigliata, parrebbe un grave sgarro. Uno degli appuntamenti principali, scopro lì, è «S’Isposu», la rappresentazione di un matrimonio tradizionale di una giovanissima coppia, con tanto di cerimonia, corteo e balli sardi, qualcuno rompe un piatto, c’è chi brinda. Il lungo copricapo nero, le coppole, le camicie e i gilet degli uomini si alternano ai coloratissimi scialle viola e ai corsetti blu, gialli, verde delle donne. Tutto ha il sapore della terra e la complessità del paganesimo, fra i vicoli stretti riecheggiano melodie gutturali dalla solennità religiosa, Bitti è il paese dei cantu a tenores, quattro voci ad evocare il muggito, il belato, il suono del vento e infine la parola. Peter Gabriel venne qui a incontrare i Tenores, pare che domandò se non fosse invece atterrato a Cuba.

Uno sforzo collettivo incentrato sull’accoglienza, quasi a cancellare la notoria imperscrutabilità di chi abita nell’entroterra, così distante dall’immaginario di frenesie della costa o dalle memorie mitizzate del banditismo. Anche per sfatare questo luogo comune, credo io, ci sono le cortes apertas, i cortili delle case private messe a disposizione sia a chi vuole dare un’occhiata a questi piccoli, ordinatissimi e discreti paradisi, sia a chi desidera ascoltare una storia da uomini e donne che si prodigano, senza affanno ma con puntualità, nel raccontare i sacrifici e la dignità di vivere al centro di un’isola troppe volte vessata dal Continente o, più prosaicamente, come produrre un buon formaggio. Una loquacità contagiosa e inaspettata per un contesto che si tende a descrivere, forse troppo frettolosamente, coi caratteri dell’immobilismo sociale e culturale.

Nello slargo davanti alla posta sento urlare come per un regolamento da Codice barbaricino, kimbe, tres, murra, le mani destre cadono a ritmo come martellate nel crocchio formato da quattro ragazzi in cerchio, concentratissimi con la sinistra tengono il costato come a contenere lo sforzo di contare. La morra è un antichissimo passatempo, più che un divertimento sembra un teatro di duellanti pronti a giocarsi la vita. Voglio dire che ogni gesto qua sembra spostato verso l’assolutizzazione, nulla che viene detto o fatto sembra casuale o ricercato, è sostanzialmente vero: un sorriso è un sincero benvenuto e non l’aspettativa di venderti un prodotto, specialmente se è la propria terra.

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