Oggi si direbbe «disfunzionale», per non definirla mostruosamente deviata, la famiglia di Yuna, ma il vocabolario a disposizione della protagonista  e voce narrante del sorprendente romanzo di Aurora Venturini,  Le cugine (traduzione di Francesca Lazzarato,  Sur,  pp. 202, € 16,50)  è inizialmente assai limitato, anche se con l’aiuto del dizionario man mano che va avanti nel racconto la ragazza imparerà  molte parole nuove e sofisticate,  comincerà a usare i segni di punteggiatura, e soprattutto troverà uno stile originale di scrittura. Dalla  capofamiglia alle sorelle, alle cugine, alle amiche, tutte le presenze del romanzo accusano gravi svantaggi fisici e mentali nell’affrontare la dura sfida della vita, con la conseguenza che domina la violenza, e nei rapporti famigliari vige l’assoluta assenza di sfumature ed eufemismi. «Le dissi che nonna era così vecchia che sarebbe morta quando meno ce lo aspettavamo e lei mi diede uno schiaffo. Allora le spiattellai all’orecchio che lei aveva organizzato il delitto del bambino di Carina e che gli angeli custodi dei bambini l’avrebbero punita».

Nella casa, modesta abitazione in un quartiere popolare della provincia di Buenos Aires, vivono soltanto donne; il marito e padre è fuggito da tempo e ormai quasi nessuno lo ricorda. In compenso, in casa della cugina un capofamiglia ci sarebbe, ma è come se non esistesse. Altri uomini che occasionalmente si affacciano alla storia sono talmente insignificanti o impotenti da diventare facili prede della voracità femminile. Per parte loro,  le donne sono nane, depresse, deformi o comunque gravemente minorate,  e sono anche impietose, con l’eccezione di Yuma, che svilupperà faticosamente un precoce talento artistico e narrativo, riuscendo così a mettersi in salvo dal disastro famigliare. Con questo  materiale umano   che sembra uscito dalla pintura negra di Goya ed è, peraltro, un riflesso della brutta società del tempo, e  malgrado premesse così disgustose da far pensare a un culto gratuito del brutto e della difformità fisica e mentale,  Aurora Venturini ha disegnato una trama avvincente e messo a punto un linguaggio letterario di una radicalità fuori dal comune.  Non c’è traccia, in queste pagine,  dei buoni sentimenti, della correttezza politica e dei luoghi comuni che comportano sovente il successo nel mercato delle lettere, né i contenuti sono frutto di una questione generazionale, perchè Venturini raggiunse la fama, con questo romanzo, nel 2007 all’età di ottantacinque anni, dopo una lunga vita trascorsa a scrivere senza ottenere grandi riconoscimenti. 

Oltre allo sfoggio di umorismo nero e calcolato cinismo nei quali si avverte tutto il peso di una certa tradizione culturale ispanoamericana – si pensi al feísmo coltivato negli spazi pubblici e privati latinoamericani o agli esperpentos del galiziano Valle Inclán – il valore del libro si misura nel coraggio con cui Aurora Venturini ha ignorato il canone e le tendenze dominanti nella convenzione editoriale,  recependo invece aspetti di grande attualità offerti dalla società contemporanea: l’orrendo spettacolo del consumismo e l’avidità, la crudeltà nei rapporti sociali, insieme alla crisi dell’istituzione famigliare. Non c’è limite alla cattiveria, è la convinzione di Yuna, che insegue il riscatto scrivendo e dipingendo sempre meglio, incerta però sulle sue reali possibilità di superare le tare genetiche ereditate dalla famiglia, o magari dall’intero contesto sociale.

«Brum…brum…brum…mormorava mia sorella Betina portando a spasso la sua disgrazia per il giardinetto e i cortili lastricati. Di solito il brum era inzuppato nella bava di quell’idiota sbavante. Povera Betina. Errore della natura. Povera me, un errore anch’io e ancora di più mia madre che portava il peso dell’oblio e di noi mostri. Ma tutto passa in questo mondo immondo. Perciò non è logico affliggersi troppo per niente e per nessuno. A volte penso che siamo un sogno o un incubo che si realizza giorno per giorno e da un momento all’altro non esisterà più, non apparirà più sullo schermo dell’anima per tormentarci». In bilico tra la commedia buffa, il grottesco e la tragedia, la progressione della lingua narrante di Yuma  è molto ben resa, nella sua difficoltà, dalla traduzione di Francesca Lazzarato, che firma anche una postfazione di grande utilità nel raccontare la figura di Aurora Venturini, scrittrice pressoché sconosciuta al lettore europeo.

Nella prefazione del volume, Mariana Enriquez, che partecipava alla giuria del premio Nueva Novela 2007 organizzato dal giornale «Pagina 12», racconta lo stupore causato dalla lettura del manoscritto di Le cugine quando si scoprì il nome della vincitrice, una donna di ottantacinque anni della cui esistenza pochi si ricordavano. In realtà Aurora Venturini, nata a La Plata nel 1921 in una famiglia di immigranti italiani, è stata fin dagli anni Cinquanta  una figura secondaria ma ben presente nella scena culturale argentina del Novecento. Giovane poeta e militante peronista nell’epoca del governo di Perón, vantava un’amicizia personale con Evita, e dopo il golpe militare del 1955 che mise fine a quel regime riuscì a fuggire in Europa per stabilirsi a Parigi. Parlando della sua vita nella capitale francese Venturini raccontava di frequentazioni e amicizie con intellettuali vicini a Simone de Bouvoir e Sartre. Di ritorno in Argentina continuò a pubblicare poesia e qualche romanzo con editori minori. Confessava di sapere poco della tradizione letteraria del suo paese, mentre si dichiarava piuttosto debitrice della letteratura europea, riconoscendo l’ascendenza di Kafka e Dostoevskij e aggiungendo di essere molto fiera della sua ascendenza italiana, e del suo lontano parente Tomasi di Lampedusa.

Dopo il premio del 2007, protagonista del caso letterario dell’anno, Venturini concesse numerose interviste a giornali e canali televisivi, interventi in cui si riconoscono appieno le caratteristiche dello stile delle Cugine, schietto, senza concessioni diplomatiche, e dotato di quella disinvoltura che è tipica di molte persone di qualle età. Mariana Enriquez ricorda: «Alla cerimonia di consegna apparve con un atteggiamento punk, il corpo magro, il volto insolito, un’espressione di scherno e candore insieme – oltre al perfido taglio degli occhi piccoli, scuri, scrutatori – e disse: Finalmente una giuria onesta».