Sable Island è un minuscolo territorio di acqua, steppa, dune, spazzato dal vento, coperto dalla nebbia e dalla neve, bagnato dal sole, «inospitale», situato a un centinaio di chilometri da Nova Scotia, in Canada, nel Nord dell’Atlantico. Per Zoe Lucas quel lembo di terra circondato dal mare è diventato la sua casa, letteralmente, avendovi trascorso quasi tutta la vita, fin dagli anni Settanta quando vi si recò per la prima volta iniziando a studiare la popolazione dell’isola – i cavalli selvaggi dalle lunghe criniere, le foche che sulla spiaggia partoriscono, gli uccelli, gli insetti -, a catalogare, da scrupolosa scienziata, ogni forma di vita e di cambiamenti, e sempre più la mole impressionante di plastica giunta da quelle parti dai più disparati angoli del pianeta oppure trovata nello stomaco degli animali morti.Mills filma in 16mm l’unica abitante di Sable Island, dove pure arriva l’inquinamento

LA SUA BARACCA è un magazzino-archivio fatto di reperti, quaderni stipati di note, liste create sul computer per radunare in minimi dettagli tutte le ricerche compiute. Una vita solitaria, essendo lei l’unico essere umano abitante quel posto, raramente raggiunta da qualche visitatore (nel 1981 la visitò Jacques Cousteau incontrando una giovane Zoe). Una vita che la regista canadese Jacquelyn Mills ha deciso di documentare nel suo potente lungometraggio d’esordio Geographies of Solitude (in concorso al festival CinemAmbiente di Torino che termina domani). L’approccio di Mills all’isola, a Lucas, alla fauna e alla flora, ai cambiamenti climatici, è sperimentale, a partire dalla scelta di girare in 16mm, e intimista, nell’essere complice di quella donna instancabile nel suo lavoro, nel dialogare con lei sfuggendo a qualsiasi tentazione biografica tradizionale. Piuttosto, un’immersione totale negli strati che compongono Sable Island, seguendo l’attività quotidiana di Lucas. Un film che restituisce l’appassionata esplorazione dell’archivista e il flusso della vita, della morte e ancora della vita. Le carcasse degli animali come nutrimento per altre specie. Con la sua macchina da presa Mills si avvicina alla vita e alla morte, «entra» nei corpi decomposti studiati da Lucas così come negli spostamenti degli insetti che tessono percorsi nella vegetazione.

E ANCHE LA PELLICOLA diventa tutt’uno con l’ambiente: sotterrata, sporcata, manipolata con detriti. L’effetto di quegli esperimenti viene mostrato nella sua concretezza, in baluginii d’avanguardia che non possono non far pensare alle tante esposizioni alla contaminazione della pellicola che si fa corpo de-composto e ri-composto operate da Stan Brakhage. Si sente il respiro della natura, l’energia che sgorga, il puzzo degli animali che si deteriorano diventando letame e quindi linfa per nuovi rigoglii della vegetazione, la libertà dei cavalli al galoppo libero. In un film che di-segna la relazione tra due donne, fino alla loro separazione, quando Mills usa l’ultimo rullo, pre-visione del termine del suo lavoro e dell’abbandono dell’isola. Geographies of Solitude è un’opera di flagranze visive e la testimonianza terribile di un mondo pervaso dalla dissennatezza dell’uomo verso quanto invece dovrebbe preservare, la Terra che abita.
Numerosa è la presenza italiana al festival (che si svolge al cinema Massimo e che quest’anno consegna il premio Stella della Mole a Franco Piavoli, domani alle 17.30, proiettando anche il suo Voci nel tempo, del 1996, ultimo capitolo del trittico iniziato con Il pianeta azzurro e proseguito con Nostos, il ritorno). Tra i film della sezione Made in Italy segnaliamo Il ciliegio di Rinaldo di Alessandro Azzarito (oggi alle 18) e Voci d’acqua di Fabio Pasini.

GIRATO in Piemonte, nel Monferrato, Il ciliegio di Rinaldo descrive anch’esso un profondo rapporto con la terra attraverso il ritratto dell’anziano contadino Rinaldo che ha vissuto tutta la vita in un contatto radicale con la natura, fino alla sua morte, sfidandola, malato, e «rimandandola» proprio per il suo continuo attaccamento al lavoro. Accanto a lui, il giovane agronomo Emanuele, che lo aiuta e apprende i segreti più arcaici dell’arte di lavorare la terra, innestare le piante, zappare, seminare. Un film che trae dalla semplicità di scrittura e sguardo la sua forza.
Voci d’acqua, scritto, diretto e montato da Pasini, è un viaggio «visionario» e al tempo nitido, lungo il Po (che, come tutti i fiumi filmati, incanta e invita a contemplazioni teoriche), dal Taro verso la confluenza con il fiume maggiore, fino al delta, al mare. Un breve prologo e epilogo incorniciano i ventotto micro-capitoli che compongono il film, ciascuno «aperto» dalla persona, in posa nell’ambiente che la circonda, che poi racconterà la sua esperienza in quei luoghi. Uomini e donne che lì hanno vissuto e vivono e che narrano il loro rapporto con l’acqua, gli argini, i boschi, le case, le strade, le alluvioni e ricordano fatti del passato, anche lontano, modi di vivere, consuetudini. Un film corale e minimalista che cristallizza «un paesaggio monotono e sempre diverso».