Il valore di esperienze come Atomic Heart non risiede tanto nel messaggio più o meno esplicito che queste ultime cercano di veicolare, ma nell’involontario discorso che permettono di esporre una volta completate. Giocando al gioco dello studio russo Mundfish si ha l’impressione costante che i cittadini di quell’URSS ucronica lavorino incessantemente per aumentare i loro capitali culturali, sociali ed economici. Sembra quasi che il comunismo sia un modo collettivo di ottenere soddisfazioni individuali in funzione di quella che rimane comunque una lotta simbolica tra i soggetti che compongono la società. Nelle prime ore di gioco ci viene chiesto se «vuoi memorizzare un capolavoro della letteratura in un secondo?», come se l’urgenza materiale del singolo potesse essere quella, in un contesto simile.

La propaganda sovietica che descrive uffici, strutture e villaggi è incredibilmente inconsistente, e suggerisce un uso piuttosto generico e banale degli stereotipi sull’URSS, piuttosto che un voler parlare di uno di quei temi analizzati dai vari poster, slogan radiofonici e dipinti artistici che decorano le splendide architetture del gioco. Nella stessa stanza si trova il poster contro il nemico statunitense (nella metafora, il dollaro), rappresentato come un mostro sempre pronto a carpire donne e uomini sovietici, e a pochi metri se ne vede uno sulla necessità di venirsi incontro per superare la guerra fredda: non sembra essere importante parlare di un tema, ma mostrare superficialmente un contesto (in questo caso quello sovietico, ma lo stesso è accaduto col cyberpunk nel caso di 2077).

Insomma, Atomic Heart, come molte delle produzioni ad alto budget dell’industria videoludica, esprime un fraintendimento valoriale molto profondo tra quanto dice e quando crede di dire. Il gioco non sembra ideato per discutere a fondo di comunismo, URSS o del conflitto tra individuo e collettivo, ma pare più interessato a inserirsi in una tradizione videoludica specifica, fraintendendone tra l’altro le filosofie fondanti.

Sebbene sia infatti evidente l’influenza di BioShock, con tanto di capitolo quasi parodistico nella sua eclatante riproposizione dei tropi di quella serie, l’oramai famigerato «potresti, per cortesia?» bioshockiano è stato totalmente frainteso, e l’intero tema del rapporto tra potere, autorità e altruismo finisce per esser gestito più come un colpo di scena che come un elemento caratterizzante il legame tra meccaniche e racconto.

Dato il contesto storico e culturale che lo riceve, Atomic Heart assume però un grande valore, per quanto involontario: nella sua totale incapacità di parlare, criticare o analizzare il comunismo, finisce per esserne un’involontaria esaltazione. Tutto ciò che riesce a dirci, dopo quindici ore di brutte sparatorie e dialoghi pacchiani, è la banale presa di coscienza che «esiste gente cattiva», con tanto di citazioni decontestualizzate de La Fattoria degli Animali e clamorose sviste dei principi alla base di ogni scienza sociale.

Ma, esattamente come Cyberpunk 2077 o The Last of Us non riescono a essere critiche profonde dei sistemi che le hanno prodotte, perché non offrono reali alternative ai mondi che criticano ma solo una sostituzione delle figure al comando, così Atomic Heart non riesce a criticare con reale profondità il sistema di valori che racconta, e finisce anzi per mostrarci alcune clamorose conquiste ucroniche, che agli occhi di un lavoratore odierno non possono che sembrare delle vere utopie.