Europa

Atene chiude i campi profughi nelle isole

Atene chiude i campi  profughi nelle isole

Grecia Lesbo, Chios e Samos. Verranno sostituiti da strutture fisse per il rimpatrio

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 22 novembre 2019

Erano diventati l’emblema dell’incapacità dell’Europa di gestire la crisi dei migranti. Ora i campi profughi della vergogna di Lesbo, Chios e Samos verranno chiusi. Ad annunciarlo il governo greco di centrodestra guidato dal premier Kyriakos Mitsokatis. I migranti accampati sulle isole verranno trasferiti in centri per l’identificazione, il ricollocamento e il rimpatrio che potranno accogliere fino a un massimo di 5mila persone. Ammesso che il termine accogliere sia il più adeguato. Ai richiedenti asilo, infatti, sarà vietato muoversi liberamente dentro e fuori dai centri e dovranno restare chiusi per il tempo necessario all’esame della richiesta d’asilo al termine del quale potranno essere trasferiti dai centri o rispediti indietro in Turchia.

La decisione rappresenta la fine di un incubo, quello che vede ammassati in condizioni disumane circa 27mila migranti nelle tre isole dell’Egeo. Nel solo hotspot di Moria sull’isola di Lesbo se ne contano più di 15mila in una struttura progettata per 3mila persone. «Una situazione esplosiva al limite della catastrofe» l’aveva definita Dunja Mijatovic, commissaria dei diritti umani del Consiglio d’Europa quando tre settimane fa aveva visitato le isole di Lesbo e Samos, chiedendo «misure urgenti per migliorare le disperate condizioni in cui vivono migliaia di esseri umani».

Decongestionare le isole era del resto uno degli obiettivi del governo. Mitsotakis aveva promesso di trasferire 20mila migranti dalle isole alla terraferma entro l’inizio del prossimo anno. Una strategia che finora ha incontrato l’opposizione della popolazione locale e che ha suscitato le perplessità di organizzazioni internazionali come l’Oim, secondo cui i centri sulla terraferma sarebbero già al pieno delle loro capacità.

La fine di un incubo inoltre sembra il preludio di un altro. A fronte della chiusura dei campi profughi sulle isole saranno creati dei «centri chiusi pre-partenza», come li ha chiamati il portavoce del governo Stelios Petsas, che renderanno più facile il controllo dei movimenti dei migranti. Un messaggio chiaro, come ha precisato lo stesso portavoce, diretto a quanti «non hanno diritto d’asilo ma che comunque stanno pensando o pianificando di entrare nel Paese clandestinamente». Saranno soldi buttati quelli dati ai trafficanti, è l’avvertimento di Atene che cerca così di scoraggiare le partenze, in aumento dallo scorso luglio. Solo nell’ultima settimana si sono registrati 1450 arrivi in Grecia, uno dei picchi più alti dalla crisi del 2015 quando dal Paese transitarono oltre un milione di profughi diretti in Europa.

Il governo greco ha poi annunciato una stretta sulle ong. Verranno fissati dei nuovi requisiti e sulla base di questi sarà permesso alle sole ong che li soddisfano di proseguire le loro attività in Grecia. In quest’ottica all’inizio del mese il Parlamento ha approvato una controversa riforma del sistema d’asilo che rende più difficile l’ottenimento della protezione internazionale e ha promesso un rafforzamento dei controlli delle frontiere marittime, specie nel sud dell’Egeo.
«Non può andare avanti così» ha tuonato il premier greco Mitsokatis in un’intervista al giornale tedesco Handelsblatt. Il capo dell’esecutivo ellenico si è scagliato contro l’Europa che «considera gli Stati membri che controllano le frontiere esterne dei luoghi dove parcheggiare i migranti».

Oltre questo rimpallo di accuse, c’è poi la realtà. Una realtà ai limiti dell’umana sopportazione, fatta di sofferenze e di morte, come quella di un bambino di appena nove mesi deceduto qualche giorno fa per una grave disidratazione nell’hotspot di Moria. Una realtà che l’Europa si ostina a non vedere.

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