Pioveva fitto fitto quando uscii dalla stazione di Knightsbridge quel pomeriggio d’inverno di qualche anno fa. Camminai veloce fino all’ambasciata ecuadoriana. Davanti al cancello mi aspettava Srecko Horvat. Insieme entrammo, passammo i controlli del poliziotto dell’ambasciata, poi una guardia ci introdusse in una sala dove Julian Assange ci attendeva.

Aveva chiesto a Srecko di conoscermi e io ero felice di andarlo a trovare.

Gli avevo portato un pacchetto di tortellini bolognesi, e lui aprì il pacchetto e si mise a mangiarli crudi. Gli spiegai che doveva metterli in una pentola di acqua bollente. Lui mi disse che aveva letto And phenomenology of the end, e mi chiese di fargli una dedica.

Poi parlammo per un po’. Di filosofia naturalmente. Io proposi che il tema del nostro incontro fosse la verità in regime di velocità assoluta, e di sovraccarico dell’attenzione: il potere, il segreto e l’enigma.

Pedante come sono cercai di spiegargli che lui stava scontando la colpa di avere creduto nell’efficacia della verità. La verità non serve a niente quando la soggettività sociale non è capace di comprenderla. Gli dissi anche che stava scontando la colpa di avere creduto nella democrazia, una parola che vuol dire qualcosa soltanto quando la società possiede la forza per imporre l’eguaglianza e la pace.

Lui rispondeva che aveva solo fatto il suo lavoro e il suo lavoro era dir la verità, e che per dirla occorre usare ogni stratagemma e ogni tecnica.

Continuo a credere che la sola colpa di Julian Assange sia quella di avere preso sul serio le parole che stanno a fondamento della democrazia liberale: verità trasparenza e democrazia. La filosofia di Wikileaks si fonda su una fiducia incrollabile nella trasparenza e nell’efficacia della verità.

Qui sta la forza di Wikileaks, qui sta la sua debolezza.

L’azione di Wikileaks si fonda sulla presunzione puritana che il linguaggio sia uno strumento del vero o del falso, così che gli enunciati possono essere definiti come veri o falsi, buoni o cattivi. Ma questa presunzione ci permette raramente di cogliere significato nell’infosfera iper-veloce che toglie alla mente collettiva la possibilità di elaborazione cosciente.

La mera identificazione del vero e del falso talvolta può produrre degli errori politici: quando, nel 2016, WIkileaks rivelò che il partito democratico stava manipolando le primarie per eliminare il candidato scomodo e favorire Hillary Clinton, fece un’azione moralmente legittima, e anche ineccepibile dal punto di vista professionale. Ma in quel contesto politico la verità finì probabilmente per favorire il Re del Falso, Donald Trump che in effetti vinse le elezioni.

L’astratta adorazione della verità può produrre effetti paradossali, e in nome della purezza si può essere strumentalizzati dai cinici più abietti.

Assange è costretto da dieci anni a vivere in condizioni di detenzione, e lo stato americano vuole catturarlo per giudicarlo con una legge del 1917 che identifica l’informazione in tempo di guerra con lo spionaggio militare.

All’inizio del secondo decennio del secolo, mentre la guerra infinita di Bush continuava a mietere vittime civili e alimentava nuovi fronti di terrore, Wikileaks denunciò quello che oggi, dopo la disfatta, appare evidente a chiunque voglia vedere: che le truppe americane uccidevano civili e giornalisti, che i governi fantoccio sostenuti dagli Usa in Afghanistan erano corrotti e impopolari, insomma che la guerra contro il caos produce soltanto altro caos, perché il caos si alimenta della guerra.

Se le autorità americane, invece di perseguitarlo lo avessero ascoltato dieci anni fa, quando gli Afghan Papers furono pubblicati, forse il povero Biden si sarebbe risparmiato l’umiliazione che lo sta trascinando verso il nulla.

Quando Wikileaks inondò di verità l’infosfera, i giornalisti di tutto il mondo si fermarono ad ascoltare, e titolarono le prime pagine con le rivelazioni che provenivano dai computer di Julian Assange e dei suoi amici, perché Assange aveva fatto quello che ogni giornalista dovrebbe fare.

Se il giornalismo si misura con gli effetti prodotti dalle indagini e dalle rivelazioni, allora non c’è dubbio che Julian Assange è, semplicemente, il più grande giornalista di tutti i tempi, mentre quelli che hanno titolato i loro giornali “siamo tutti americani”, coloro che hanno preso per buone le parole di Dick Cheney e Donald Rumsfeld o di Powell che all’ONU mostrava una bottiglietta con polverina bianca, dovrebbero solamente vergognarsi.

In questi venti anni il cinismo è dilagato nell’informazione occidentale, ma a quanto pare alla lunga il cinismo non vince le guerre. Ora sarebbe il momento di rimediare.

Chi potrà mai più credere nella parola di coloro che hanno tradito la fiducia delle donne afghane e degli alleati europei? di coloro che firmarono un trattato con l’Iran per poi cancellarlo?

Per rimediare all’infamia occorre un processo culturale di riflessione, di autocritica, di rifondazione. Saprà farlo l’America di Biden, che però è anche il paese di Black Lives Matter?

Io non so se esista ancora una coscienza americana, se esistano forze intellettuali capaci di rigenerare quel paese. Se esistono ora dovrebbero mobilitarsi perché cessi la persecuzione di Assange.

Non so se nel partito democratico le persone ragionevoli e decenti (che ci sono, per quanto minoranza) sono in grado di fermare la macchinazione che mira a uccidere un uomo che ha fatto il suo dovere di giornalista, che ha creduto nella democrazia e che ha usato gli strumenti della tecnologia e dell’informazione per denunciare una guerra criminale e perdente.

Ma se sono in grado di farlo, dovrebbero battersi perché lo stato americano abbandoni la sua meschina inutile vendetta, e ritiri la richiesta di estradizione.