Per una serie di bizzarre coincidenze uno dei capolavori della pittura italiana rinascimentale, il Cristo morto sorretto da un angelo di Antonello da Messina, venne acquistato dal Museo del Prado nel 1965, quando era universalmente ignoto. La proprietaria non era una persona conosciuta: veniva da Irún, una piccola città sulla frontiera nord della Spagna, e aveva ereditato il quadro dalla nonna, Rosa Mendiluce. Risalendo lungo i secoli si arrivava però al Conte di Lemos, Viceré di Napoli nel primissimo Seicento, e forse al Cardinal Rodrigo de Castro (1523-1600), che era un antenato di Lemos, come racconta Artur Ramon in un libro irresistibile che mi è tornato fra le mani, e di cui consiglierei la traduzione: Nada es bello sin el azar (2012, pp. 148, Editorial Elba, Barcellona) che potremmo tradurre liberamente «nulla è bello per caso». Sottotitolo: Quince episodios sobre pintura.
Soffermiamoci un momento sul meraviglioso quadro di Antonello. Parliamo di un capolavoro assoluto, dipinto su tavola (74 x 51 cm), fatto conoscere da chi l’aveva scoperto, Xavier de Salas (1907-’82), noto storico dell’arte, vicedirettore e poi direttore del Prado, che era anche quel che si definiva una volta «un uomo di gusto». La storia dell’arte, a mio modo di vedere, non può essere considerata una vera e propria scienza e, lo si voglia o meno, sconfina sempre nella letteratura e in un concetto indecifrabile, il gusto appunto.

Non è sorprendente che questo quadro non sia stato sempre giudicato in modo impeccabile, e così alcuni studiosi hanno voluto vedere in esso addirittura la mano di un altro artista per il paesaggio di fondo. Anzi, ancor di più. Uno dei primi scritti che lo riguardano è quello di Giovanni Previtali, allievo di Longhi ma più storico dell’arte che conoscitore (apparso in «Prospettiva», n. 21, aprile 1980, pp. 45-57). Quella disamina, scritta con grande finezza, arriva a una conclusione inaccettabile e cioè che «la tavola del Prado, essendo della stessa mano di un’opera firmata da Jacopo di Antonello, non è opera di Antonello da Messina ma di suo figlio Jacopo». In questa asserzione Previtali non è stato quasi mai seguito se non, subito dopo, da Fiorella Sricchia. Non mi dilungherò su questo problema che, passati tanti anni, non val la pena discutere, limitandomi solo a citare l’opinione più tarda del quasi novantenne Ferdinando Bologna, nel 2013: «credo che la tavola del Prado (non dissimile dal Cristo alla colonna del Louvre) sia tutta di Antonello. Anche il fondo sulla destra non mi sembra così “sfocato” come lo hanno visto Previtali e la Sricchia».

Masaccio, Madonna Casini (detta anche Madonna del solletico), Firenze, Uffizi.

Torniamo al breviario di Artur Ramon, dove il quadro di Antonello è apprezzato per quello che è. Ma Ramon non tratta solo di quadri. Scrive anche di alcuni storici dell’arte che l’autore divide in varie categorie: quelli che si chiudono negli archivi per studiare dipinti che di solito non guardano; quelli che uccidono l’arte non capendola e dunque spiegandola male; la terza categoria, la più rara, anzi in via di estinzione come le balene, è composta da persone che hanno dedicato la vita a spiegare l’arte con occhio eloquente, un faro che attraversa tutto il ventesimo secolo e la cui luce ancora oggi ci illumina. E qui menziona un nome a noi caro, quello di Roberto Longhi, che l’autore cita con la devozione di un allievo.

Non lo fu per ovvie ragioni anagrafiche: Ramon è nato a Barcellona nel 1967, ma fu discepolo di José Milicua, grande amico dell’Italia e per un certo periodo redattore della rivista «Paragone» fondata da Longhi. Il nostro amico conosce bene i lavori di Longhi e anche quel che si è scritto su di lui. Eccolo citare un apprezzamento di Pier Paolo Pasolini non molto conosciuto: «… era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo lessico era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli». E le lodi di Ramon continuano più motivate ancora quando si sofferma attentissimo su una scoperta che risale al 1950, una piccola tavola di Masaccio oggi agli Uffizi che Longhi attribuì subito al grande innovatore della pittura italiana. Lentamente venne capita da tutti e si prestò attenzione anche al fatto che il retro del dipinto si adorna dello stemma di Antonio Casini fatto cardinale da Martino V nel 1426. Lo stile, dunque non è contraddetto dai fatti storici. D’altra parte vorrei anche far notare come nella predella con l’Adorazione dei Magi, facente parte del polittico di Masaccio del 1426, si vede di profilo la Vergine col Bambino in braccio che appare una trascrizione in prospettiva della Madonna Casini: quando una strada si imbocca bene il viaggio continua senza scosse.

Ramon parla poi del quadro italiano più bello fuori dall’Italia. Non so se esagero: la competizione è ardua e include candidati formidabili che non starò qui a elencare. Diciamo comunque che il San Francesco in estasi di Giovanni Bellini nella Frick Collection mi commuove da quando lo vidi, ragazzino, nel 1949. Non saprei definire l’emozione che produsse in me e dunque preferisco citare i versi di un poeta, alcune frasi di Roberto Longhi scritte nel 1952 nel suo celebre Viatico: «sulle tracce di Piero e di Antonello, ancora lui, caldo sangue, alito accorato, accordo pieno e profondo tra l’uomo, le orme dell’uomo fattosi storia, e il mondo della natura». Artur Ramon ricorda come nella tavola restino impresse le impronte digitali dell’artista che forse, involontariamente, così come aveva dato il proprio respiro al corpo e allo sguardo emozionato del Santo, ha voluto sfiorare commosso il cielo su cui si rifletteva la luce di Cristo che di lì a poco avrebbe trapassato il suo corpo.