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Artisti d’Africa a Napoli

Artisti d’Africa a Napoli

La mostra Per riflettere su identità, memoria e contemporaneità: al Maschio Angioino, «L' Africa & Napoli»

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 13 gennaio 2024

Un remo conficcato in una materia lignea che finisce in ancora. A guardarlo meglio è un femore piantato sulle linee ricurve, riccioli che riproducono le onde del mare o forse una terra da lavorare, con un piccolo seme rosso che galleggia nel mare/terra. Il simbolo della speranza e del sangue versato in questo Mediterraneo crudele, l’installazione di Mario Ciaramella, sullo specchio d’acqua abitato da popoli e civiltà diverse, mare d’accoglienza e di respingimento per i tantissimi che fuggono da guerre, fame, violenze, diritti negati. Dell’opera fa parte anche un frammento del Discorso sul colonialismo di Aimé Césaire, datato 1950.

La scultura surreale apre la grande mostra collettiva al Maschio Angioino, L’ Africa & Napoli, identità, memorie e contemporaneità, concepita per riflettere sui temi del «Cultural Heritage in the 21st Century» dell’Unesco svoltosi lo scorso novembre e per riportare Napoli al centro di processi di integrazione culturale e sociale. Ideata e prodotta da Andrea Aragosa per Black Art e curata da Alessandro Romanini, terminata domenica scorsa, allestita negli spazi delle Antisale dei Baroni di Castel Nuovo, con una colonna sonora ad hoc composta da Enzo Avitabile, l’esibizione raccoglie 186 opere di artisti africani e italiani, provenienti da gallerie, musei e collezioni private, mettendo insieme manufatti antichi e quadri contemporanei, in un dialogo tra la cultura visiva africana e quella artistica occidentale.
Perché Napoli? Per un rapporto antico, una relazione ultrasecolare col continente nero, porto importante e «porta del Mediterraneo» per la sua posizione centrale sul Mare Nostrum, ma anche per la presenza di una vasta comunità africana integrata nel tessuto sociale, ospitando la sede della Società Africana d’Italia (SAI), fondata a fine ottocento con intenti coloniali, con il suo museo che compie 10 anni nel 2024, vantando l’eccellenza negli studi universitari orientalistici e africani, sede dell’Istituto Orientale, la più antica scuola d’orientalistica d’Europa.

Napoli è stata anche sede della Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale nel 1934 (vera e propria anticipazione della imperiale Triennale d’Oltremare del 1940), concomitante del libro dell’etnologo Michel Leiris Afrique Fantôme (Africa Fantasma), diario ed esplorazione etnografica che narra la missione Dakar-Gibuti guidata da Marcel Griaule. «La storia dei diecimila bambini arrivati a Napoli nel ‘39 per raccontare l’Africa alla Mostra d’Oltremare, un padiglione dedicato alle colonie italiane -Libia, Etiopia, Eritrea e Somalia – che avrebbe dovuto rappresentare lo stile di vita di quelle nazioni. Bambini e familiari poi rimasti qui nella nostra terra da ‘cittadini’, per lo scoppio della guerra, rappresentano la nostra memoria identitaria, che sarà al centro di un documentario che realizzeremo grazie ad un lavoro di indagine e ricerca negli archivi del Comune, e non solo, ma anche cercando le testimonianze di chi ancora è tra noi», ha dichiarato il sindaco Gaetano Manfredi.

Tornando alla mostra, subito s’incontrano quattro coloratissimi abiti cerimoniali del Benin, riccamente elaborati, che venivano indossati dai danzatori nelle funzioni religiose con intento simbolico e di avvicinamento al divino. Poco distante la ricostruzione di un altare vodu, composto da ciotole, pezzi di legno, maschere sacre e un tessuto ornamentale col culto dei gemelli. Il termine deriva dalla lingua fon, parlata nel sud del Benin, e significa «genio», «spirito protettore». Questa forma di culto originaria del Togo e del Benin si è diffusa oltreoceano, recata con sé dagli schiavi costretti a lasciare il Golfo di Guinea sulle navi negriere (da questi stessi produttori di Black Art una grande esibizione sul vudu con centinaia di pezzi è prevista per maggio 2024). Durante le cerimonie religiose collettive, le persone si rivolgevano ai vodu per negoziare una soluzione ai problemi esistenziali e quotidiani, un aspetto che rimanda alle pratiche dei fedeli cristiani che si prendevano cura delle «anime pezzentelle» in cambio di grazie.

Così le installazione fotografiche di Assunta Saulle al cimitero delle Fontanelle, storico luogo di culto per i defunti senza nome. Un altro segnale della tradizione napoletana che trova un corrispettivo in alcune forme di culto tradizionali africane, rievocate da elementi come maschere, sculture e oggetti ritenuti sacri. Il tentativo di riflettere sulle civiltà africane precoloniali ma anche di lasciarsi incantare da questi lavori d’arte contemporanea dalle storie importanti con una grande carica d’energia. Come le figure antropomorfe di Dominique Zinkpè, del Benin, dove elementi riconducibili alla fede cristiana si intrecciano all’animismo vodu, in una fitta rete di simboli dai toni onirici o le lamiere pubblicitarie riassemblate del togolese Camille Tete Azankpo, saldatore di formazione, i suoi frammenti di latta metallica sono recuperati e ricuciti utilizzando del filo di ferro, quasi cuciture per sanare delle ferite, un atto di cura fondendo le tracce passate con elementi della contemporaneità. E poi i tagli rosso sangue dei disegni di Mathilda Balatresi , quelli delle nigeriana Laetitia Ky e Michelle Okpare coi suoi volti di donne su carta crespa.
L’arte africana portata in Europa attraverso il colonialismo all’inizio del XX secolo ha cambiato la storia dell’arte occidentale, soprattutto influenzando la rappresentazione della figura umana attraverso l’uso di forti ed essenziali geometrie.

C’è la fotografia iconica di Man Ray, Noire et blanche, punto di partenza della commistione tra arte europea e istanze africane, vicino troviamo The Throne of Poor Actor, un trono di ferro realizzato con rottami e armi di guerra dismesse, dall’artista mozambicano attivista contro la guerra Goncalo Mabunda. E l’emozionante pietà nera, una donna con in braccio un malato d’Aids, di Ernest Pignon-Ernest, artista visivo francese, già noto per i suoi lavori di street art su Pasolini.

L’Africa e Napoli è stato il titolo anche del lungo concerto di Enzo Avitabile, col griot maliano Baba Sissoko, polistrumentista tra n’goni, un cordofono e tamani, il tamburo parlante, coadiuvati da Gianluigi di Fenza alla chitarra e Emidio Ausiello alle percussioni, nella chiesa di San Francesco e Santa Chiara a Ponticelli, nel Lotto Zero del complicato quartiere periferico, già cantato dal polistrumentista di Marianella che ha intonato insieme col caloroso pubblico un pezzo di venti anni fa, ancora di forte attualità, Salvamm ‘o munn.

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