«Alechin mi fa venire in mente un immenso serbatoio dove sia venuta ad accumularsi una inverosimile quantità di energia bruta. Come se avesse introiettato tutta la violenza del suo secolo per trasferirla miracolosamente sulla scacchiera. Si tratta di un genio dalle proporzioni inaudite, forse addirittura un demonio».

Non c’è bisogno di amare gli scacchi per riconoscere tutto il fascino della vicenda biografica di Aleksandr Alechin, considerato come uno dei più grandi scacchisti di sempre, campione del mondo per la prima volta nel 1927 e stella incontrastata del gioco per tutti gli anni Trenta, cui Arthur Larrue ha dedicato un romanzo che ne indaga gli aspetti più cupi, le ossessioni, i deliri, i fantasmi dell’anima spesso nutriti dall’alcol e la droga: La diagonale Alechin (Neri Pozza, pp. 254, euro 18, traduzione di Alberto Folin).

Parigino, classe 1984, Larrue racconta attraverso la figura di Alechin le contraddizioni, gli abissi e la furia di un’epoca che annuncia la Seconda guerra mondiale, dove la meschinità e gli interessi personali, lo stesso campione di scacchi sarà accusato di aver collaborato con i nazisti nella Parigi occupata, scriveranno pagine altrettanto incancellabili di quelle dettate dall’eroismo e dal coraggio. Ma lo scrittore francese, grande conoscitore e amante della cultura russa, ha insegnato quattro anni all’università di San Pietroburgo prima di esserne cacciato a causa della sua vicinanza con i dissidenti, racconta anche il rapporto controverso di Alechin con la Russia, da cui era fuggito negli anni Venti dopo aver lavorato per il Cremlino, in uno scambio continuo tra il simbolico e il reale, la violenza del Novecento e l’annuncio di un crepuscolo oggi incarnato dalla politica, e dalla guerra, di Putin.

La personalità controversa di Aleksandr Alechin dominò il mondo degli scacchi negli anni Trenta, perché ha scelto proprio la sua figura per guidare il lettore attraverso gli anni convulsi e terribili della Seconda guerra mondiale: cosa voleva raccontare attraverso la sua traiettoria biografica?
Volevo illustrare tutti i punti deboli e il crepuscolo del maschio bianco dominante. E Alechin è stato un modello del genere. La sua violenza è certamente di ordine simbolico, poiché si esercita solo sulla scacchiera, all’interno dei meccanismi di un gioco, ma resta comunque della medesima natura: si tratta di schiacciare l’avversario, di imporgli la propria volontà, di provocare lo smantellamento delle sue forze e poi di invadere il suo spazio, per provocarne la fine. Sarebbe sbagliato credere che il gioco degli scacchi sia qualcosa di innocuo. Chiunque vi si sia avvicinato ne ha percepito il pericolo. Ma volevo anche amare e ammirare questo maschio bianco dominante, vale a dire, volevo scrivere un romanzo posseduto da tutte le contraddizioni del caso. Che si tratti di Heidegger, Céline, Malaparte, Pound, Furtwangler e via dicendo (gli esempi sono numerosi e l’attualità culturale è punteggiata da questo tipo di problematica, in particolare legata ai temi morali) tutti vedono dove sta il problema, ovvero la coesistenza di ammirazione e repulsione, del meglio e del peggio, e tutto ciò riguardo allo stesso individuo. Il romanzo è nato all’interno di questa tensione, non c’è una sola frase che non sia in qualche modo minata da tale ambiguità. Volevo odiare e amare allo stesso tempo. Volevo scrivere un libro segnato dall’ossessione.

Nel libro, su una rivista scacchistica britannica il colonnello Bromfield riconduce lo stile d’attacco «feroce» di Alechin, «la violenza che libera sulle 64 caselle» alla biografia del personaggio, all’aver superato, a prima vista indenne, una guerra mondiale, una guerra civile e una rivoluzione: Alechin racchiude in qualche modo in sé la violenza che si è sprigionata nella Russia dei primi decenni del Novecento?
Malgrado il colonnello Bromfield sia un personaggio di fantasia, e quindi la sua tesi non sia ovviamente verificabile, credo si possa considerare in larga parte vera. Alechin ha trasposto sulla scacchiera la violenza del suo tempo. Come la famosa difesa (1.e4 Cf6) che porta il suo nome, c’è anche una «posizione» che lo ricorda, il cosiddetto «Cannone di Alechin» che implica la sovrapposizione di due torri e una regina su di un’unica colonna. Una mossa che non potrebbe essere più brutale.

Lei ci tiene a spiegare di non essere uno studioso né uno storico della Russia, eppure il suo grande interesse per questo Paese, attraverso la storia di Alechin come i suoi libri precedenti, è evidente: da dove nasce e come si alimenta?
Diciamo che voglio sentirmi libero. Uno studioso è tale in base alla sua erudizione, uno storico alle sue fonti. Personalmente sono soltanto uno scrittore ricco di fantasia che devo rispondere prima di tutto ai propri sogni. A volte per alimentarli basta una partita a scacchi, ma più spesso servono i libri. Da piccolo leggevo e rileggevo un libro illustrato sulle imprese di Napoleone. Quando sono apparsi i cosacchi, con le loro lunghe picche, i loro pantaloni larghi, mi si è rivelato d’improvvisi un mondo. E non credo di aver superato ancora quel momento di sorpresa e di scoperta. La Russia è rimasta per me qualcosa di remoto ma ben presente all’orizzonte, una zona mentale dove mi sento libero. Anzi, a pensarci bene un luogo dove sento il bisogno di essere ancora più libero.

Nel 2014 ha pubblicato un romanzo, «Partir en Guerre» (Allia), ispirato al suo incontro e alla frequentazione a San Pietroburgo con gli esponenti del gruppo di artisti dissidenti Voina. Cosa le ha fatto capire della Russia quella vicenda e quanta solitudine circonda chi si oppone al potere di Putin?
Dieci anni fa ho assistito alla sconfitta della società civile russa contro il regime guidato da Vladimir Putin. Oggi constato con orrore che quella guerra interna sta continuando all’esterno, sul territorio dell’Ucraina. Nel frattempo, i miei amici sono fuggiti in Georgia o in Israele. Sognano l’Europa. Cittadina russa di origine ucraina, D. , una di loro, è rimasta a San Pietroburgo con i suoi figli mentre la sua famiglia sta cercando di sopravvivere sotto le bombe a Kharkiv.

In un testo che ha pubblicato di recente su «Le Monde», spiegava come per comprendere i russi si debba prima di tutto capire la paura nella quale sono immersi costantemente. E precisava che all’esempio offerto dagli ucraini, che combattendo l’invasore dimostrano di non provare tale paura nei confronti di Putin, i russi stessi potrebbero ispirarsi per dar vita ad una vera «rivoluzione». Lo crede davvero possibile?
Quando ho pubblicato quell’intervento l’invasione era appena iniziata. Cercavo di analizzare gli elementi costitutivi del «patto sociale russo», vale a dire i legami che il popolo russo ha con i propri governanti e ho affermato che a ben guardare la Russia non è né un Paese né un impero, bensì un’influenza. Qualunque siano le loro differenze – e ce ne possono essere molte, ad esempio tra un abitante della Carelia o delle Isole Curili, del Caucaso o di Murmansk -, i russi conoscono fin troppo bene la condizione di quasi anarchia del loro Paese. Conoscono la corruzione endemica dello Stato e dei suoi rappresentanti, la condizione fatiscente delle infrastrutture pubbliche e dell’intera macchina pubblica. Non si fanno certo illusioni sull’oscurità che pesa sul loro futuro. Eppure si affidano alla paura, come una specie di ultima risorsa. Oserei quasi parlare di conforto. Per questo dico che se Putin non fosse più in grado di ispirare paura alla Russia, e al resto del mondo, allora apparirebbe indegno del suo potere. Questo riflesso malsano, ma decisivo, l’ho incontrato ovunque nel Paese, anche in seno all’intellighenzia. La Russia è percepita dai propri abitanti come una grande entità malvagia in procinto di esplodere. Qualcosa come un cielo tempestoso. Ai loro occhi, gli ucraini sono colpevoli di aver fatto arrabbiare la Russia. E chi li sostiene con armi e denaro commette l’errore di prolungare la sofferenza per una punizione inevitabile. E per immaginare appieno l’orrore della situazione, è necessario capire che la simpatia dei russi per gli ucraini è sincera. In questo momento li stanno piangendo.