Artavazd Pelešjan, la natura non indifferente
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Artavazd Pelešjan, la natura non indifferente

Venezia 79 La Mostra proporrà un omaggio al regista armeno classe 1938

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 27 agosto 2022

Inizia con un sereno e suggestivo paesaggio di montagne e nuvole che, dopo alcuni minuti, viene rotto da una serie di esplosioni e slavine. È l’inizio dell’ultimo film di Artavazd Pelešjan, La Nature, che il grande regista armeno ha realizzato per la Fondation Cartier e lo ZKM di Karlsruhe nel 2020 e che viene proiettato a Venezia in anteprima italiana. Il film si presenta come una grande elegia sulla violenza dirompente della natura e dei suoi elementi: già all’opera in altri suoi memorabili film come My/Menk (Noi, 1969) o Vremena goda (Le stagioni, 1975). Alluvioni, tsunami, uragani, cataclismi di ogni genere si abbattono sulle opere costruite dagli uomini travolgendole in pochi secondi senza pietà. Le immagini sono prese dal web e da altri archivi proseguendo, dopo 30 anni di silenzio dal suo ultimo film, La Vie, quella poetica del montaggio che il cineasta ha inaugurato nel 1967 con Nacalo (Il principio), attraverso un raffinato e lirico utilizzo del repertorio, mescolato con sequenze girate ex-novo. L’immagine nella sua estetica basta a sé stessa, senza l’ausilio di testi o didascalie.

Chiamiamolo found-footage o documentario sperimentale, il cinema di Pelešjan è circoscritto solo a una quindicina di film (in gran parte cortometraggi) realizzati nell’arco di 60 anni ma che, tuttavia, sono magistrali per il pathos e la struttura ritmica su cui sono costruiti. In questo senso Pelešjan sembra davvero aver applicato al meglio la lezione di un Ejzenstejn, così ben espressa in un famoso e insuperato saggio che è La natura non indifferente.

Pelešjan è stato sempre avaro di parole, forse perché preferisce lasciar parlare le immagini: non a caso nel 2011 Pietro Marcello gli ha dedicato un portrait dal significativo titolo, Il silenzio di Pelešjan, limitandosi a filmarlo senza porgli alcuna domanda. Ma per comprendere meglio il suo cinema, oltre che a qualche conversazione (quella con Viktor Demin, pubblicata sul catalogo della retrospettiva dedicatagli dal Festival di Pesaro nel 1989), è necessario rimandare a un suo testo teorico fondamentale, pubblicato nei primi anni ’70: Il montaggio «a distanza». Tale concetto ci consente di rileggere tutta la sua opera non come «cinema di montaggio», ma come un’unica infinita elegia all’insegna di uno slancio vitale. Secondo lui il montaggio non congiunge, bensì separa due inquadrature, producendo così un campo di energia, consistente in una corrispondenza tra immagini, gruppi di immagini ed elementi formali in esse contenute, con l’obiettivo di trasmettere allo spettatore «la posizione filosofica» dell’autore.

La ripetizione di una stessa inquadratura in punti diversi del film, acquista un differente significato, inoltre un’immagine può rivelare la sua «pregnanza ideale» anche dopo qualche minuto, cioè «dopo che nella coscienza dello spettatore si è stabilita una catena di montaggio non solamente fra gli stessi elementi ripetuti, ma anche fra questi e ciò che li circonda caso per caso». Le sue immagini – provenienti dal regno animale, vegetale e umano – producono epifanie, si fondono creando una potente architettura visiva, scandita da un ritmo che segue i differenti tempi di una sinfonia (allegro ma non troppo). Quello di Pelešjan è un cinema «musicale» nel senso più profondo del termine, cinema che si ricollega semmai alle sinfonie visive dell’avanguardia storica e alla tradizione del primo cinema sovietico. Ma guarda oltre: diventa a tratti poesia struggente e incalzante texture fatta di ossessioni e ripetizioni. Tale sistema di iterazioni e corrispondenze, crea in definitiva una struttura circolare, anzi una «forma sferica rotante», come la definisce il cineasta armeno, che aggiunge: «Il montaggio ‘a distanza’ determina un legame non solo tra i singoli elementi veri e propri (punto con punto), ma, ed è la cosa più importante, fra un insieme di elementi un altro (punto con gruppo, gruppo con gruppo, inquadratura con episodio, episodio con episodio). Così avviene un’interpretazione fra un processo ed un altro, ad esso opposto. Definiamolo ‘principio a blocchi’ del montaggio ‘a distanza».

Il procedimento del found-footage nel cinema di Pelešjan acquista dunque una particolare valenza nell’ottica della sua teoria del montaggio, una valenza quasi costruttivista, ma soprattutto multidisciplinare, tenendo conto che nei suoi scritti l’autore fa esplicito riferimento alla musica, alla poesia e all’architettura. E, aggiungeremmo, anche alla danza: pensiamo alle due bellissime sequenze dei contadini e dei pastori armeni in Vremena goda che trascinano i covoni di fieno per i pendii o si lasciano scivolare sulla neve abbracciando i loro montoni. Il sentimento «panico» che ritroviamo in alcuni capolavori quali Obitateli (Gli abitanti, 1970) ci riportano a questa idea dell’esistenza umana correlata indissolubilmente con la natura circostante, in un meccanismo entropico che si ripete secondo forme e rituali sempre differenti. Cineasta della vita (La vie, 1993, quasi interamente giocato sul primo piano di una donna che partorisce) e della morte (La Fin, 1992, un viaggio in treno come metafora di un lungo percorso che attraversa le varie fasi dell’esistenza), Pelešjan cerca col suo cinema di rivelarci il mistero del principio e della fine di tutte le cose, secondo una prospettiva onto-filogenetica.

Non fa eccezione La Nature – titolo anche di un progetto installativo-espositivo che il cineasta ha realizzato presso la Fondation Cartier di Parigi -, che non ha mutato la poetica di Pelešjan, tanto dal punto di vista concettuale (la struttura ciclica di principio-fine-rinascita) quanto da quello formale: la granulosità della pellicola lascia il posto spesso alla bassa definizione dell’elettronica e del web. Il regista ha uniformato sequenze assai diverse, sovente di carattere amatoriale, con il bianco e nero, un formato che non ha quasi mai abbandonato (fatta eccezione per La vie) e che rivendica anche nel passaggio dall’analogico al digitale. D’altronde la sinfonia visiva de La Nature rende l’attualissimo spettacolo – sublime e terrificante – degli elementi naturali colti nella loro furiosa devastazione, qualcosa di fortemente legato all’estetica filmica novecentesca, dalla quale Pelešjan non può e non vuole affrancarsi

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