Galeotto fu l’articolo, The Abstract Sublime, uscito su «Art News» nel febbraio 1961, e chi lo scrisse, Robert Rosenblum. Lo storico dell’arte statunitense, in quell’occasione, rileggeva il lavoro di un manipolo di espressionisti astratti – Clyfford Still, Mark Rothko, Jackson Pollock, Barnett Newman – attraverso la lente del Sublime, quasi fossero novelli Turner o Friedrich, James Ward o John Martin, e tracciando un fortunato sentiero critico che, di lì a breve, numerosi artisti e storici dell’arte, non ultimo anche il nostro Francesco Arcangeli, avrebbero esplorato.

Fatalmente capitato tra le mani di un Erwin Panofsky quasi settantenne, professore universitario ormai prossimo alla pensione, l’articolo divenne innesco per una scoppiettante querelle tra l’ormai conclamato campione dell’iconologia moderna e Barnett Newman, partita esattamente dal titolo dell’opera di quest’ultimo Vir Heroicus Sublimis, che per un refuso era diventata, nella didascalia del periodico, Vir Heroicus Sublimus. Sotto gli occhi arbitrali del direttore di «Art News» – un Alfred M. Frankfurter che immaginiamo sogghignante e divertito – seguì un feroce palleggio di arguti e caustici rincalzi, giocato sul terreno della pedanteria latinista, in cui l’uno accusava l’errore – Sublimus – e l’altro difendeva la «correttezza» di entrambe le versioni. La disputa, a sorpresa, fu ampiamente dominata da entrambi i contendenti a suon di dotte citazioni, che spaziavano con disinvoltura tra Alfrico, Cicerone e Chaucer, come anche di velenose insinuazioni.

Da qui parte il volume Il sublime astratto (a cura di Pietro Conte, Johan & Levi, pp. 120, euro 20,00), in cui l’episodio è brillantemente ricostruito con fonti d’archivio e il supporto di un generoso apparato documentario. Apparentemente, quella che Conte definisce nell’incipit «la storia di un dialogo tra sordi, o meglio: di un carteggio tra ciechi», potrebbe essere derubricata a niente più che sapida bizzarria aneddotica. Invece egli ne prende spunto per tessere una riflessione che attraversa le ragioni più profonde della siderale distanza tra il mondo di Panofsky e quello di Newman: l’uno alfiere dello studio dell’immagine nelle opere d’arte, e incapace naturalmente di comprendere la pittura aniconica dell’altro, che nell’assenza dell’immagine trovava invece uno dei suoi caratteri fondanti.

Una frattura profonda e inevitabilmente insanabile esisteva dunque tra le rispettive visioni teoriche, radicalmente opposte quanto alla relazione tra immagine e pittura: emblematiche ne sono, da un lato la dichiarazione tranchante «chi fa immagini – non importa se realistiche o astratte – non fa pittura», data da Newman in un’intervista rilasciata nel 1963 a Lane Slate; dall’altro, il dissacrante paragone, tanto irrispettoso quanto esilarante, tra la pittura di Pollock e quella della scimpanzé artista Betsy, tanto in voga negli ultimi anni cinquanta, che Panofsky osò con gran dileggio in una manciata di lettere scambiate con lo storico dell’arte William Heckscher: indimenticabile il passaggio in cui l’accademico di Princeton scrive dell’action painter, peraltro appena scomparso, «se soltanto il destino gli avesse concesso più tempo, avrebbe probabilmente cominciato a dipingere anche con i piedi».

Eppure di tracce utili a comprendere la sua via a una poetica del Sublime, Newman ne aveva lasciate in gran numero a partire dal titolo del famigerato dipinto, Vir Heroicus Sublimis, una tela colossale – quasi tre metri di altezza per cinque e mezzo di larghezza – eseguita tra il 1950 e il 1951 e oggi conservata al MoMA di New York, in cui un campo rosso acceso è scandito da un ritmo di linee verticali. Solo qualche anno prima, poi, nel 1948, il pittore newyorchese aveva elaborato una sorta di scritto programmatico intitolato Il sublime è ora, dove era dichiarato come il sublime di pseudo-longiniana memoria potesse essere un mezzo per svincolarsi dalle immagini riferite a un certo bacino iconografico tradizionale, trito e ormai consunto – «stiamo creando immagini la cui realtà si impone da sé, affrancate da tutti quei supporti e da tutte quelle stampelle che evocano associazioni con immagini datate», scriveva Newman, e non sorprende che tale intento risultasse a Panofsky, parimenti alle ricerche degli astrattisti, indecifrabile se non inconcepibile.

Inoltre, erano proprio le dimensioni monumentali della nuova pittura a favorire il perdersi percettivo dell’osservatore nelle opere e, smarrito ogni riferimento spaziale e di orientamento – lo stesso Newman, quando espose per la prima volta Vir Heroicus Sublimis alla Betty Parsons Gallery, nel 1951, diede istruzioni perché l’opera fosse fruita da molto vicino –, ad attivare il processo estetico del Sublime nel fruitore: «stiamo riaffermando il naturale anelito di noi esseri umani verso ciò che è elevato, verso tutto quel che riguarda il nostro rapporto con l’emozione assoluta», scriveva ancora Newman, e quell’emozione assoluta andava cercata obbligando l’osservatore a sentirsi presente all’interno del quadro.

E proprio in questo, come osserva Conte, e come invece era sfuggito a Rosenblum, risiede la differenza tra i pittori romantici del Sublime e i loro emuli moderni, gli espressionisti astratti, trasformandosi il fruitore delle opere di questi ultimi nel viandante di Friedrich davanti al mare di nebbia, e diventando perciò egli stesso il soggetto della pittura, dentro alla pittura, il Vir Heroicus Sublimis del titolo, appunto, l’eroe del quadro. Un quadro il cui porsi non era più, dunque, in quanto mera rappresentazione – passaggio già percorso in effetti dall’arte astratta –, ma come evento o, nelle parole di Lyotard, come «quell’accade che è l’opera».

Il volume, oltre al saggio introduttivo di Conte, allo scritto di Newman e al famigerato carteggio di cui sopra, raccoglie una serie di saggi – di Max Imdahl, Jean-François Lyotard, Gottfried Boehm, Arthur Danto – circoscritti al tema, ed essenziali per afferrare l’autentica portata del problema posto da Vir Heroicus Sublimis, ma assolutamente ignorato, inavvertitamente o intenzionalmente, dai due protagonisti della scaramuccia: non tanto la questione del superamento del concetto di pittura come rappresentazione, quanto la conciliazione tra iconologia e arte astratta, ma lasciandosi alle spalle sia la produzione di immagini sia quella ricerca della bellezza da sempre guida e ossessione per gli artisti in Europa, e che ora, nell’America del dopoguerra, poteva essere finalmente abbandonata come inutile fardello.