Internazionale

Armonia tra i contrari, equilibrio dei sapori: cucinare diventa arte

Cina I cinesi per chiedere «come stai?», dicono «hai mangiato?». Se tanti mangiano per vivere, i cinesi vivono per mangiare

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 26 settembre 2017

Quella per il cibo è una passione che risale ai primi insediamenti umani nella valle del fiume Giallo, nel nord del paese. Nel 5.000 a.C. già si attesta la presenza di pentole vasellame utilizzati per la preparazione delle pietanze, ma è solo tre millenni dopo che, con l’apparizione delle prime testimonianze scritte, siamo in grado di avere un quadro più dettagliato delle abitudini alimentari locali.

In epoca Shang (ca. 1600 a.C. – ca. 1046 a.C.) si faceva largo consumo di miglio, orzo e grano, mentre dobbiamo attendere l’avvento della dinastia Zhou (1045 a.C. – 770 a.C.) perché venga introdotta la soia e altri sei secoli per assistere ad una diffusione capillare dell’amato riso, prima poco comune nell’area del fiume Giallo. Con l’unificazione dell’impero Qin (221-206 c.C) e la costruzione del canale Lingqu – inizialmente ideato per connettere lo Yangtze al delta del fiume delle Perle con scopi militari – il processo di diversificazione dell’alimentazione cinese ha registrato una notevole accelerata.

In quegli anni già si sperimentava l’accoppiamento di sapori diversi nella stessa pietanza, con il grasso animale come condimento principale fino a quando, verso gli sgoccioli della dinastia Han (206 a.C. al 220 d.C.), non si cominciò a produrre olio di semi. Salsa di soia, aceto, sale, melassa e miele erano già utilizzati per dare un retrogusto agrodolce alle ricette, mentre stando a un saggio apparso negli annali dello Stato di Lu, il controllo della fiamma e la padronanza dei condimenti venivano considerati elementi cruciali per la buona riuscita di un piatto. Nel frattempo, l’espansione del Celeste Impero verso Occidente e il Sudest asiatico lungo l’antica via della seta ha portato all’introduzione di nuovi ingredienti esotici: uva, noci, sesamo, cipolle, coriandolo, pepe, capsicum, nidi di rondine, pinne di pescecane e cetrioli di mare cominciarono ad entrare nelle cucine cinesi fino a diventarne elementi imprescindibili. Persino il tè, ormai bevanda nazionale, era completamente sconosciuto prima dei Tre Regni (220 d.C-265 d.C), ovvero fino a quando non fu introdotto presumibilmente da alcuni monaci buddhisti provenienti dall’area indo-birmana.

Anche l’ormai diffusissima huoguo, l’hot pot, non è che un «prestito« mongolo del XII sec. d.C.

Quest’inclusione armoniosa di contaminazioni è avvenuta in un contesto culturale prettamente cinese. Le filosofie confuciana e taoista hanno determinato gli aspetti tecnico-rituali e quelli nutrizionali. Consciamente o inconsciamente, in Cina, chiunque si metta ai fornelli persegue la ricerca dell’equilibrio tra i vari sapori: la consonanza tra i contrari si combina alla costante presenza dei cinque elementi (wuxing) fuoco, terra, acqua, metallo e legno; un numero che ricorre con insistenza, dai cinque sapori (dolce, aspro, amaro, salato, piccante) alla polvere cinque spezie, tradizionale miscuglio a base di anice stellato, pepe del Sichuan, chiodi di garofano, cassia e semi di finocchio. Quattro sono invece le grandi scuole associate ai punti cardinali, ognuna caratterizzata dai condimenti scelti: a nord si fa un uso generoso di aceto, nelle zone costiere di zucchero mentre nelle regioni occidentali dominano pepe e peperoncino.

Riso (nelle province meridionali) e derivati del grano (al nord) – come spaghetti e pane al vapore -sono la base di un pasto di tutti i giorni, a cui si aggiungono pesce, carne e molta verdura. Non sempre, tuttavia, le condizioni materiali hanno concesso un menù tanto vario. Le privazioni sofferte nel XX secolo, dalla Grande Carestia alla Rivoluzione Culturale, hanno continuato a influire sulle abitudini mangerecce dei cinesi, passati dall’inedia ad una vorace passione per i grassi animali, descritta con vividezza dal premio Nobel Mo Yan in I quarantuno colpi.

Complice la diffusione rampante di fast food e catene locali ispirate a KFC e simili lo scorso anno il ministero della Salute ha varato nuove linee guida con l’obiettivo di ridurre il consumo di carne del 50%. Le motivazioni non sono soltanto di natura medica (nel 2030 oltre un quarto dei bambini cinesi potrebbe essere obeso), ma anche ambientale.

In Cina sedersi attorno a un tavolo non costituisce soltanto un momento di aggregazione sociale condito di rimandi storico-filosofici. È anche una questione che sconfina più che mai nell’ambito della sicurezza nazionale. La stabilità interna domina le priorità della leadership non solo quando si parla di scioperi nelle fabbriche e proteste verdi. Lo dimostra l’attenzione prestata all’allocazione delle terre coltivabili e ai controlli nell’industria alimentare dopo una lunga scia di scandali, con lo scopo di combattere le diseguaglianze sociali e il malcontento popolare.

Lo stesso vale per la moratoria sulla pesca nel mar cinese meridionale, dove Pechino e vicini rivieraschi si contendono isolotti disabitati ma ricchi di risorse naturali. L’accesso alla pesca (incoraggiata quando effettuata da imbarcazioni cinesi disposte a proteggere gli interessi nazionali) è stata recentemente «moneta di scambio» in un tacito accordo all’origine di un riavvicinamento diplomatico con le Filippine. D’altronde, «le cose che gli uomini bramano di più sono mangiare, bere e i piaceri sessuali». Soprattutto quando in gioco c’è la sovranità su una delle aree più ricche di risorse ittiche al mondo.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento