Visioni

«Ariaferma», la vita in carcere nello spazio della parola

«Ariaferma», la vita in carcere nello spazio della parolaSilvio Orlando – foto di Gianni Fiorito

Venezi 78 In concorso Leonardo Di Costanzo sorprende il «genere» in una narrazione che interroga il nostro tempo. Con Silvio Orlando

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 8 settembre 2021

Ariaferma, una sola parola come il respiro inghiottito in gola. Si chiama così il nuovo film di Lenoardo Di Costanzo presentato Fuori concorso (e in sala il 14 ottobre) che conferma il grande talento di questo regista il cui gesto cinematografico porta in sé, a ogni nuova prova, i passaggi di cui è composto per reinventarli una volta in più. Non si tratta (non solo) di «generi», il documentario che è stato il suo primo terreno di confronto col racconto del mondo, e la «finzione», queste divisioni di forma non appartengono alle sue opere (L’intervallo, 2012; L’intrusa, 2017, il primo ha debuttato a Venezia, il secondo alla Quinzaine di Cannes): è questione di messinscena, di parole, di movimento, di una «giusta distanza» in cui non servono passaggi spettacolari né esibizione del gesto cinematografico: tutto si gioca lungo le traiettorie degli sguardi, nella fisicità millimetrata che allena ogni muscolo e nervo, tra le geometrie degli spazi: un giardino in L’intervallo, un cortile in L’intrusa.

QUI SIAMO dentro al carcere di Mortana, intorno un paesaggio della Sardegna aspro e bello, invisibile alle celle, gli universi che si scrutano l’uno nell’altro sono interamente maschili con l’eccezione della direttrice del carcere che esce però quasi subito di scena. Hanno deciso di chiuderlo, gli agenti festeggiano, finalmente non dovranno più andare così lontano. Ma all’improvviso il loro futuro cambia: un problema burocratico costringe a rimandare il trasferimento di un piccolo numero di detenuti che nell’attesa di una nuova assegnazione rimarranno lì, e con loro alcuni poliziotti: due gruppi di uomini entrambi imprigionati seppure con motivazioni e ruoli opposti.
«L’ordine di trasferimento può arrivare da un momento all’altro» ripete Gaetano, l’ispettore che è stato incaricato del comando. Di fronte a lui, a rappresentare i dodici detenuti c’è don Carmine Lagioia, capo indiscusso lì dentro, probabilmente camorrista (anche se di nessuno si dicono i reati che lo hanno condotto in cella) a fine pena, per questo non sembra interessato agli scontri pesanti, a sobillare rivolte – se non a una protesta su ciò che non si può davvero sopportare come il cibo cattivo, lo stesso che mangiano i poliziotti, portato da un catering per supplire la chiusura delle cucine. Le due parti si osservano con diffidenza, gli agenti hanno paura, mentre giorno dopo giorno la certezza di una soluzione rapida, che ha persino sospeso la «normalità» quotidiana – le visite, la cucina – si allontana: il tempo cola e insieme si immobilizza. Da queste premesse la scommessa del regista è quella di un movimento che «sorprenda» il teatro in cui avviene, e quanto vi rimanda. Ariaferma non è un film «carcerario» pure se del carcere restituisce il sentimento di costrizione che gli appartiene lavorando sulla profondità, senza l’enfasi o le convenzioni che porta in sé il soggetto « a tema»: l’intuizione del regista è spostare sempre un po’ obliquamente la propria narrazione grazie a una scrittura precisa sia nella sceneggiatura – scritta insieme a Valia Santella e a Bruno Oliviero – che sul piano cinematografico.

IL PUNTO DI PARTENZA dunque anche per parlare di carcere sono le due figure che lo incarnano da una diversa ma comune prospettiva: il detenuto don Carmine e l’ispettore Gaeatano, rispettivamente Silvio Orlando e Toni Servillo in un magnifico duetto in sottrazione, che è la cifra di un film nel quale si afferma ugualmente la dimensione corale – grazie anche a un cast in cui troviamo tra gli altri Salvatore Striano, Fabrizio Ferracane, Roberto De Francesco, e molti magnifici attori non professionisti.
Queste figure disegnano una geografia umana che oppone scontenti, irrequietezze, insoddisfazioni, pregiudizi, e non semplicemente di una parte verso l’altra ma anche tra di loro, negli agenti c’è chi vorrebbe il «pugno di ferro» poco convinto o preoccupato delle scelte di mediazione dell’ispettore, mentre i reclusi emarginano un anziano che si intuisce ha commesso abusi contro i bambini. E poi c’è quel ragazzo spaesato più di tutti (il bravo Pietro Giuliano) arrivato lì con una vita disgraziata e un crimine commesso per avventatezza di cui sente la colpa con dolore.

QUANDO il cibo cattivo diviene intollerabile scatenando uno sciopero della fame e proteste che potrebbero degenerare, l’ispettore accetta la proposta di don Gaetano, sarà lui a cucinare mentre l’altro lo sorveglia. Nella cucina con i coltelli in bella vista la tensione fluisce in qualsiasi gesto: non accade nulla lì, succede tutto altrove perché quel confronto, la presa di parola che rimodula le relazioni, seppure in un stato eccezionale, è umano e politico, ci parla delle casualità della vita, delle scelte, delle esperienze comuni anche a chi, come i due uomini, ora è su sponde diverse. E si fa racconto morale, che interroga la vita nel suo svolgersi, e una realtà che appare assurda.
Mentre noi spettatori ci aspettiamo a ogni istante che esploda il caos, la regia di Di Costanzo (che ritrova i suoi «complici» abituali, Carlotta Cristiani al montaggio, Luca Bigazzi alla fotografia) lo ha già fatto avvenire in quei dialoghi, nei gesti pacati, nei passaggi che superano – mantenendo le gerarchie – la linea della separazione per inventare anche solo un istante uno spazio comune. Che è quello di una storia lontana, di una diversa consapevolezza dell’altro, della cura, dell’ascolto; qualcosa che riguarda il nostro tempo non solo nella reclusione.

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