Argentina, un tetto ai prezzi e boom delle mense popolari
Reportage Legislative in vista, il governo di Alberto Fernández prova a correre ai ripari di fronte a una crisi economica sempre più drammatica. Ma non basta: inflazione destinata a superare il 50%. In 350 mila a Buenos Aires sopravvivono grazie ai "comedores populares". Ma le associazioni denunciano: razioni sempre più povere
Reportage Legislative in vista, il governo di Alberto Fernández prova a correre ai ripari di fronte a una crisi economica sempre più drammatica. Ma non basta: inflazione destinata a superare il 50%. In 350 mila a Buenos Aires sopravvivono grazie ai "comedores populares". Ma le associazioni denunciano: razioni sempre più povere
A meno di una settimana dalle elezioni legislative in Argentina, il governo di Alberto Fernández si avvicina al voto con l’obiettivo di ribaltare il risultato ottenuto alle primarie del 12 settembre nelle quali, rispetto alle elezioni del 2019, ha perso 4 milioni di voti.
Con un’inflazione che lo stesso governo stima supererà il 50% entro fine anno e quasi 12 milioni di argentini sotto la soglia di povertà, il Frente de Todos in questa seconda parte di campagna ha puntato il dito contro i produttori di alimenti ed è nuovamente intervenuto fissando un tetto massimo ai prezzi.
In questo contesto i comedores populares, le mense popolari della Città di Buenos Aires, offrono 350 mila pasti al giorno. Julia Rosales, pensionata, è referente in una di queste mense e membro della Corriente Clasista y Combativa (CCC), un’organizzazione nata durante l’epoca neoliberista degli anni ’90 e oggi presente in tutto il paese. 25 persone cucinano per i vicini della zona, che cinque giorni alla settimana fanno la fila per portarsi la cena a casa. Julia sente «una rabbia terribile» perché chi rifornisce le mense, ovvero il governo cittadino guidato da Horacio Rodríguez Larreta – che si definisce successore dell’ex presidente Macri – «amministra la città come un’impresa», mostrando «una grande avversione nei confronti dei poveri».
In una crisi aggravata dalla pandemia, Julia assicura che il governo locale ha giocato sporco, aumentando il numero di pasti disponibili ma diminuendone il peso ed eliminando quasi del tutto la carne. «Risparmiare in queste cose è vergognoso, mentre in altri quartieri mette piante e aggiusta i marciapiedi venti volte. Ma la gente povera non la vogliono. Siamo spazzatura», afferma.
L’Argentina è uno dei principali esportatori mondiali di generi alimentari. È leader nell’esportazione di soia e derivati secondo il Dipartimento agricoltura Usa, ed è tra i primi dieci esportatori mondiali di mais, grano e carne. Sempre in Argentina, diversi leader popolari stimano che ci siano 12 mila mense sociali, con circa 70 mila persone che vi lavorano. Numeri che sono stati diffusi in aprile dalle organizzazioni sociali – alcune delle quali fanno parte dell’alleanza di governo – dopo il negoziato con Alberto Fernández al fine di considerare i propri lavoratori come essenziali in vista della campagna di vaccinazione contro il Covid-19.
«Basta polenta», hanno scritto varie organizzazioni sociali usando la polenta stessa davanti all’ingresso del ministero dello Sviluppo sociale il mese scorso. Infatti, mentre i governi locali sono i responsabili dell’assistenza alle mense, lo Stato, oltre a promuovere programmi come la Tessera Alimentare per l’acquisto diretto di cibo da parte delle famiglie più povere, o la fornitura di pasti alle scuole, distribuisce – tramite le organizzazioni sociali presenti sui territori – “borse della spesa” che spesso tuttavia non arrivano neanche ad avere dieci prodotti al loro interno.
«Ai tempi di Cristina (Kirchner, ndr) ricevevamo fino a 21 prodotti diversi, c’era persino carne in scatola. Con Fernández inizialmente non ricevevamo nulla, poi solo sei o sette prodotti. Nel contesto della pandemia c’è stata molta irregolarità», commenta Mónica Sulle, che era alla protesta conclusasi con l’ingresso di alcuni attivisti nell’edificio ministeriale. «So che la disperazione porterà a questo e a molte altre cose», assicura. Mónica è coordinatrice nazionale del MST-Teresa Vive, movimento di sinistra che tra le altre attività gestisce 9 mense nella capitale – ognuna con una media di 350 pasti distribuiti giornalmente – ed è una delle tante organizzazioni che ricevono le “borse della spesa” da ripartire nei quartieri o che vengono utilizzati nelle mense.
Il governo nazionale, nell’occhio del ciclone per aver acquistato cibo a prezzi eccessivi causando interruzioni nella catena di approvvigionamento – l’argomentazione ufficiale è stata che nella pubblica amministrazione i pagamenti a 90 giorni hanno dovuto tenere conto dell’alta inflazione – adesso offre denaro alle organizzazioni per comprare direttamente alcuni dei prodotti mancanti.
Jonny arriva sulla sua sedia a rotelle alla mensa gestita dal Frente Popular Dario Santillán (FPDS) nel quartiere de La Boca. Saluta le due cuoche, Sandra – che viaggia un’ora e mezza ogni giorno per andare a lavorare – e Claudia – una madre single di 36 anni con cinque figli, rimasta senza lavoro durante la pandemia. Il menú del giorno: stufato di lenticchie da servire con formaggio grattugiato e un pezzo di pane.
Solo in questo quartiere, la FPDS offre tra 400 e 450 pasti al giorno e gestisce una mensa che funziona anche come asilo, un’area picnic e uno stabilimento con alcune cooperative. «Costruiamo senza capi e senza padroni, praticando la democrazia di base e prefigurando una società diversa», ha commentato Jonny. La maggior parte dei bisogni – aggiunge – nasce nelle assemblee con gli abitanti del quartiere.
Queste tre organizzazioni, oltre alle mense per i poveri promuovono cooperative di lavoro della cosiddetta economia popolare in settori come l’igiene urbana, l’edilizia, il tessile – producendo ad esempio camici e indumenti per la sanità pubblica, in accordo con il governo – e convertono in salari alcuni piani statali di assistenza sociale basati sull’erogazione di denaro.
Le tre persone consultate concordano sul fatto che dopo la pandemia la crisi è ulteriormente peggiorata anche perché sono andate perdute molte possibilità di changas, ovvero lavoretti precari e occasionali, e che anche se la disoccupazione «adesso è un po’ scesa», di fatto «la gente viene ancora a cercare cibo». Nelle assemblee di quartiere promosse da questi movimenti, dicono, una delle principali lamentele riguarda i proprio i prezzi del cibo, fondamentalmente insostenibili per molte famigli.
Anche a partire dalla necessità di alleviare situazioni come queste il governo nazionale ha fissato un limite alle tariffe di 1.400 prodotti di base, ma è ancora lontano dal risolvere un problema strutturale. Per questo motivo, le manifestazioni sociali continuano a essere un elemento quasi quotidiano in Argentina. Le prossime elezioni configurano quindi, da un lato, l’urgente bisogno dell’esecutivo di riguadagnare sostegno a breve termine e non perdere legislatori nel Congresso nazionale, un luogo chiave per l’approvazione del debito milionario che l’Argentina ha con i creditori esterni, e che scadrà il prossimo anno. Dall’altro, sarà altrettanto necessario trovare una soluzione alla fame nel paese e in tal senso il voto di domenica prossima sarà importante per capire quanto gli argentini e le argentine abbiano ancora fiducia nel progetto politico rappresentato dall’attuale alleanza di governo in merito alla gestione della crisi.
Traduzione di Gianluigi Gurgigno
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento