«La destra argentina ha dovuto accettare come principale dirigente una donna, dopo un gran numero di dirigenti uomini. La sinistra ha avuto diverse dirigenti donne, la destra mai. E ora, ecco Patricia Bullrich». A dirlo è stata, durante una recente intervista, la sempre acuta Beatriz Sarlo, che non si è mai occupata solo di letteratura (materia da lei lungamente insegnata all’Università di Buenos Aires), ma è anche una notista politica che continua a rivendicare «una sensibilità di sinistra», nonostante scriva su grandi giornali conservatori. Nella sua frase c’è probabilmente una sfumatura sarcastica, perché Bullrich, scelta da Juntos por el Cambio come candidata alla Presidenza della Repubblica, è un personaggio anomalo ed eccessivo (la sua aggressività, il ghigno inconfondibile e l’esibita passione per le armi hanno generato innumerevoli meme), che ha poco in comune con le compagne di partito come María Eugenia Vidal, ex governatrice della provincia di Buenos Aires, o Gabriela Michetti, a suo tempo scelta da Maurizio Macri per la Vice Presidenza. A differenza di Bullrich, entrambe rispondono alla consolidata identità delle donne che in questo secolo hanno assunto ruoli di rilievo in seno alle destre latinoamericane, analizzata nel saggio «Las mujeres de las derechas latinoamericanas del siglo XXI» (Revista Cidob d’Afers Internacionals, n°26, 2020) dalle ricercatrici argentine Verónica Giordano e Gina Paola Rodríguez.

OLTRE A SOTTOLINEARE che fino a quarant’anni fa queste diffuse presenze femminili sarebbero state impensabili, le due giovani studiose mettono in luce i loro «diversi stili di esercizio del potere» – ovvero liberismo tecnocratico o populismo autoritario – e individuano le caratteristiche comuni come l’appartenenza a classi sociali privilegiate, gli stretti legami con le imprese e con la chiesa cattolica, l’ostilità per il femminismo e la dissidenza sessuale, il rifiuto dell’aborto. Paladine della famiglia tradizionale, contrarie ai matrimoni o alla genitorialità degli omosessuali, aderiscono totalmente a modelli di leadership maschili e sono pronte a presentarsi come capaci e autorevoli «madri di famiglia», tanto che Giordano e Rodríguez si chiedono: «In quale misura le donne delle destre latinoamericane finiscono per essere nient’altro che utili ancelle di un nuovo patriarcato neoliberista e/o autoritario?». Nessuno, però, oserebbe dare dell’«utile ancella» a Patricia Bullrich, che dopo aver guidato con pugno di ferro il Ministero degli Interni durante il governo Macri, ha fatto leva sul tema della sicurezza per scalare i vertici del partito e ha inoltre alle spalle una vita da romanzo, narrata da Ricardo Ragendorfer in una dettagliata biografia per nulla autorizzata: Patricia, de la lucha armada a la seguridad (Planeta, 2019).

IN ARGENTINA, del resto, tutti sanno che Bullrich, di estrazione alto-broghese e cognata di Rodolfo Galimberti (uno dei capi militari dei Montoneros, poi bollato dai suoi come traditore), gli fu anche compagna di militanza clandestina, partecipò a qualche azione armata, andò in esilio e al suo ritorno intraprese un accidentato cammino verso l’estrema destra, fatto di passaggi spregiudicati e di alleanze stabilite e infrante con identica disinvoltura.

Anche se il suo approccio securitario e muscolare ha spostato Juntos por el cambio ancora più a destra, Bullrich ci tiene a mostrarsi meno conformista delle sue colleghe, e al contrario della cattolicissima Michetti, legata alle associazioni provida, si è dichiarata «personalmente» favorevole alla legge sull’aborto, ma ha ritenuto «inopportuno» che il suo partito la votasse; tre anni fa, inoltre, ha presieduto alla nascita dell’organizzazione Puto Bullrich (gioco di parole tra il suo soprannome, Pato, e puto, cioè «frocio»), allo scopo di sottrarre il monopolio del discorso sui diritti Lgbtq al governo kirchnerista, che in materia ha promulgato leggi molto avanzate. E Puto Bullrich, ha scritto Emmanuel Theumer sulla rivista Cosecha roja, si è subito appropriata del linguaggio e dell’iconografia dei movimenti (un espediente ormai familiare alle destre di tutto il mondo) per usarli in funzione di un omonazionalismo da sodomitas neocons – la definizione è del filosofo gay Paco Vidarte – che «depoliticizza la sessualità».

A METÀ AGOSTO, le P.A.S.O. (Pre-elezioni Aperte, Simultanee e Obbligatorie che selezionano i partecipanti a quelle presidenziali) hanno assegnato a Bullrich il 28,3% dei voti, collocandola tra il 30% di Javier Milei di La Libertad Avanza e il 27,3% di Sergio Massa di Unión por la patria, coalizione promossa dal Partido Justicialista; era inevitabile, quindi, che i media di tutto il mondo si concentrassero sull’affermazione di un outsider eccentrico come Milei, del quale una recentissima biografia (El Loco di Juan Luis González, Planeta 2023) illustra gli studiati eccessi e il breve percorso politico, che lascia intravedere sponsor inquietanti come gli iperliberisti dell’epoca Menem e alcuni avanzi della dittatura. Non a caso il sociologo e storico argentino Federico Finchelstein – autore di Dai fascismi ai populismi (2019) e Mitologie fasciste, Storia e politica dell’irrazionale (2022), editi da Donzelli – lo ha definito giorni fa un populista di estrema destra che mescola un messaggio profondamente autoritario a programmi miracolistici e inattuabili.

BULLRICH, perciò, ha visto il suo buon risultato appannarsi a causa di un candidato che, in cerca di alleati, è già in rapido avvicinamento a Macri, e il cui appeal mediatico sembra irresistibile. Se la Pato è a suo modo un «personaggio» e maneggia i social con disinvoltura, Milei la supera di molto: a partire dal 2018 ha sbraitato per centinaia di ore insulti e vanterie nei talk televisivi, connotandosi come il «pazzo della motosega» che si ispira confusamente al paleolibertario nordamericano Murray N. Rorhbard e vuole eliminare la Banca centrale, i ministeri e ogni intervento dello Stato, cancellare la legge sull’aborto e l’educazione sessuale, consegnare scuola e sanità ai privati e introdurre la dollarizzazione.

Milei è votato soprattutto da giovani maschi di classe medio bassa alle prese sin dalla nascita con la crisi economica, pronti a provare «qualcosa di nuovo» e conquistati tanto dal messianismo del candidato e dal suo grido di battaglia contro «la casta» («Viva la libertà, cazzo!»), quanto dalla sua estetica da manga giapponese – a prendersene cura è la bionda cosplayer Lilia Lemoine – e dal suo furioso antifemminismo. Con le elettrici, però, La Libertad Avanza ha meno fortuna, e si è quindi affrettata a «femminilizzarsi» inserendo nelle sue liste un certo numero di giovani candidate e scegliendo come futura vicepresidente Victoria Villaruel, figlia e nipote di golpisti, politica di rara durezza e inalterabile sorriso, che da anni diffonde tesi negazioniste e proposte di indulto per i responsabili del genocidio. In ottimi rapporti con Bolsonaro e con Vox (che in ottobre ha ospitato Milei in Spagna), Villaruel ha scritto un libro intitolato Los otros muertos. Las víctimas civiles del terrorismo guerrillero de los 70 (Sudamericana, 2014), in cui sostiene la legittimità della repressione militare contro i sovversivi: un ponte con i nostalgici del passato, ma anche con quanti vogliono archiviarlo in vista di un luminoso futuro «libertario».

LA VERA CARTA VINCENTE di Milei, però, è un’altra donna che a suo dire «non ha una sola goccia di sangue socialista nelle vene», e cioè l’idolatrata sorella minore Karina, unica persona di cui si fida (che le sorelle, dalla hermanisima Pilar Primo de Rivera – custode della morale femminile in epoca franchista – ad Arianna Meloni, siano l’arma segreta della destra?). Javier la chiama El Jefe e ha annunciato di volerla al suo fianco come Primera Dama, se sarà presidente: nessuno dei due si è mai sposato ed è lei ad amministrare i beni del fratello, a scegliere i suoi abiti, a fargli da addetta stampa, a dirigere la campagna elettorale, ad aver messo in piedi una sorta di franchising economico-politico che ha attirato sui Milei l’accusa di vendere le candidature.

KARINA MILEI ha anche ideato il logo del non-partito (una testa di leone) e la coreografia dei comizi, e soprattutto ha disegnato le strategie comunicative necessarie a trasformare Javier da folkloristico ospite televisivo in una sorta di messia, sostenuto con fervore da centinaia di seguaci su Youtube e Tik Tok. Misteriosa, invisibile, autoritaria, onnipresente e, a quanto si dice, appassionata di tarocchi e spiritismo (proprio come López Rega, l’anima nera di Isabelita Perón), Karina è dunque l’ombra dietro il trono del «leone» Javier, i cui oltraggiosi ruggiti non possono che turbare i sonni delle argentine. O, almeno, di tutte quelle che non sono «donne di destra».