Visioni

«April», corpo amato e negato

«April», corpo amato e negatoImmagine da «April» di Dea Kulumbegashvili

Venezia 81 Un’ostetrica sfugge alle regole della Georgia nell’opera seconda di Dea Kulumbegashvili. L’aborto clandestino, il genere, il dispositivo visuale

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 6 settembre 2024

Dea Kulumbegashvili è cresciuta a Lagodekhi, in Georgia, ha studiato a New York, non vive più nel suo Paese ma i luoghi dell’infanzia compongono la texture fisica e emozionale in cui abitano le sue storie. Era lì che si muoveva Beginning, il film d’esordio premiato al Festival di San Sebastian che l’ha rivelata, e quel paesaggio nella palette dei colori di una natura che riflette l’intimità dei personaggi torna in April – presentato nel concorso veneziano – insieme all’attrice protagonista, splendida Ia Sukhitashvili.

ANCHE QUESTA è una narrazione declinata nel femminile nel confronto con un patriarcato violento famigliare e istituzionale al cui interno non c’è spazio per il desiderio della donna, ingabbiata nel ciclo «riproduttivo» di madre e moglie, nell’idea di una maternità della quale non può scegliere il tempo, quando essere madre e come, e che spesso diventa strumento politico di un’ulteriore emarginazione. Come ha raccontato l’autrice April è nato mentre stava lavorando a Beginning, lei predilige lavorare con attori non professionisti e cercando i bambini per il film ha conosciuto le loro madri; avevano tutte moltissimi figli e in quei villaggi arretrati, spesso senza elettricità né gas, si erano sposate giovanissime, erano analfabete e molto povere. «Mi ha colpita incontrare ragazze della mia età che non sapevano leggere con sette o otto figli, ai quali in molti casi non riuscivano a garantire da mangiare. Non hanno scelta, non hanno accesso alla contraccezione e il governo georgiano ha introdotto nuove restrizioni alla possibilità di abortire. Per questo abbiamo deciso di non chiedere alcun supporto finanziario alla Georgia, penso che se il film sarà visto lì solleverà molte discussioni» ha raccontato Kulumbegashvili.

Una scena del film

LA PROTAGONISTA di April, Nina (Sukhitashvili) è un’ostetrica, lavora nell’ospedale della zona e di nascosto aiuta le donne nei villaggi a abortire. Quelle gravidanze sono spesso causate da violenze domestiche, o non sono volute a fronte di situazioni precarie, con tanti bambini e appunto pochi mezzi per mantenerli. Le madri sono giovani, costrette a sposarsi adolescenti, sono giovanissimi anche i loro mariti, Nina le aiuta dando loro la pillola perché «lavarsi col sapone da bucato» non serve certo a evitare gravidanze, anche questo è un tabù.. Lei è una solitaria, conosce quella terra, ci è cresciuta, da piccola aveva paura del fango che un giorno nel lago aveva risucchiato la sorella. Temeva che morisse invece no, ora è sposata, ha due figli, mentre Nina non ha famiglia: è chiusa in ospedale, gira la notte, a volte tira su degli uomini a caso offrendosi sessualmente, i suoi amori li ha abbandonati e alcuni di loro, che lavorano nello stesso ospedale ancora cercano risposta. «Fai almeno un figlio» le dice un ex. Impensabile che davvero come dice «basta a sé stessa».

Mi ha colpita incontrare ragazze della mia età che non sapevano leggere con sette o otto figli. Non hanno scelta, non hanno accesso alla contraccezione Dea Kulumbegashvili
Aprile, il più crudele dei mesi: in fondo quell’essere sospesa in una Waste Land eliotiana dove neppure la bellezza luminosa della primavera apre l’orizzonte appartiene a Nina dalla prima sequenza, un parto che finisce male; il bimbo nasce morto, lei rischia di trovarsi processata, la odiano i maschi con cui lavora, sfugge alle regole, è da un’altra parte. Ma quello che potrebbe essere un film «a tesi» nel suo rispondere alla necessità di riaffermare un diritto come l’aborto messo in pericolo non solo in Georgia, diventa anche qualcos’altro, e proprio grazie alla sua forma, un dispositivo sensoriale della visione rende la propria materia molto più forte.

È fisicamente doloroso nell’impasto di fango, buio, nel formato 1:33 che chiude natura e umani, nelle riprese frontali, in quell’incollarsi ai frammenti dei corpi (la scena dell’aborto che restituisce il dolore senza mostrare nulla, solo mani che si stringono, è molto potente). E nell’oscurità che stride coi fiori rossi esplosi sensuali nei campi. La sensualità negata alle donne, come il piacere, la gioia. È troppo? Troppo poco? È che nel parlare di aborto Kulumbegashvili parla di sessualità, di desiderio, di corpi, di fantasmi. Di un femminile che annaspa e lotta, di un’ambiguità che scivola fra i fantasmi baconiani nei sogni della protagonista, di un sesso che capovolge le regole del gender: femminile/maschile. È un’opera complessa April ma soprattutto la prova che il cinema politico può avere ancora una complessità, non si tratta di filmare le cose ma di cercare una prospettiva, un punto di vista per restituirle nel loro conflitto. Lei lo fa assumendosene i rischi.

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