Uomo illustre suo malgrado, Anton Bruckner ha avuto una vita in poco o in nulla memorabile, se non per la sua musica, dalla cui eccezionale originalità, conquistata con un lavoro di quasi disumana fatica, gli venne una fama che maneggiava in maniera goffa e impacciata. L’incredibile caparbietà con cui Bruckner perseguì i suoi disegni, partendo dal gradino professionale più basso di organista di paese fino a diventare il principale sinfonista del suo tempo nella capitale dell’Impero, sembrava dissolversi come neve al sole appena l’oggetto delle sue attenzioni si spostava dall’esercizio della musica alla vita personale, e in particolar modo alla sfera sentimentale, sede di un disordine comportamentale e psicologico che non ha l’eguale in nessuna biografia di musicisti pur altrettanto problematici, da Beethoven a Brahms.

Nel secondo centenario dalla nascita, la prima edizione italiana delle sue lettere – Anton Bruckner Lettere 1852-1896, scelte tradotte e commentate da Alberto Fassone (Libreria Musicale Italiana, pp. 377, € 35,00) getta finalmente un po’ di luce sulla biografia di un uomo che sembrerebbe uscito dalla penna di Giuseppe Pontiggia, se l’assurdità di certe proposte di matrimonio, le improbabili e disperate richieste di aiuto, le ridicole rivendicazioni di merito e le esagerate professioni di amicizia verso persone che al massimo si potevano reputare suoi conoscenti non fosse una testimonianza certa e concreta dell’abissale solitudine nella quale ha vissuto la sua esistenza questo compositore capace di rivoluzionare il linguaggio sinfonico: ignorato a cinquant’anni, disprezzato a sessanta, e infine onorato e addirittura idolatrato a settanta.

Sebbene il romantico teorema dell’arte come specchio della vita sia irrimediabilmente superato dai tempi del Contre Sainte-Beuve di Proust, mai risulta così stinto e fuorviante come nel caso di Bruckner. L’uomo che balza fuori dalle lettere, infatti, è un rigido e formale rappresentante dell’Austria rurale del Vormärz, un suddito che segue come stella polare il binomio Dio e Imperatore, un infelice frustrato di mentalità bigotta e patriarcale: eppure, quello stesso uomo compose capolavori visionari e sconvolgenti come la Quarta, la Settima e la Nona Sinfonia. Nelle sue lettere sarebbe inutile cercare corrispondenze o confronti non solo intellettuali, ma anche semplicemente artistici e musicali con personalità di rilievo della cultura del tempo. Con i grandi musicisti della sua epoca – Richard Wagner, Franz Liszt, Gustav Mahler o Hugo Wolf – si scrisse solo biglietti, lettere di circostanza, comunicazioni occasionali che non rivelano alcun reale scambio di opinioni, e neppure una elementare simpatia umana, men che meno da parte di Liszt, che ferì profondamente quell’uomo chiuso e mite dimenticando, in un albergo di Vienna, il manoscritto della sua Seconda Sinfonia. Bruckner intendeva dedicarglielo.

La maggior parte della corrispondenza è indirizzata ai direttori d’orchestra, tra i quali figurano tanto nomi importanti come Hermann Levi, Hans Richter, Hans von Bülow, Felix Weingartner quanto oscuri maestri di provincia ormai caduti nell’oblio. Sempre nell’ossessiva speranza di un’esecuzione, di un’attenzione verso il suo lavoro, di una comprensione per le sue gigantesche cattedrali musicali, erette spellandosi l’anima senza alcun pudore, e a prezzo di un durissimo lavoro strappato ai pochi ritagli di tempo concessi da un’attività didattica sfiancante, divisa tra Conservatorio, Università e lezioni private.

Eppure la lettura di questo epistolario è tutt’altro che noiosa, anzi è forse la maniera migliore di osservare da vicino l’impenetrabile personalità di questo compositore, che continua a rimanere un enigma per la maggior parte del pubblico italiano. Con il suo  magnifico lavoro, il curatore Alberto Fassone  non solo è riuscito a rendere stilisticamente l’assurdo linguaggio barocco, burocratico e visionario di Bruckner, una sorta di Woyzeck musicale che nella sua immensa solitudine vede il mondo attraverso lo specchio deformato delle sue ossessioni gerarchiche, religiose e sessuali, ma ha intagliato attorno a queste lettere, grazie alla sua competenza assoluta e aggiornata, una cornice storica e biografica perfetta, che colma molte lacune della scarsa letteratura in lingua italiana sull’argomento.

Qua e là, per fortuna,  qualche frase squarcia per un istante la scorza di riserbo che avvolge in genere il lavoro musicale di Bruckner , lasciando filtrare quel che pensava realmente di sé e del suo rapporto col mondo: il 27 gennaio 1891, scrive al direttore Weingartner a proposito dell’Ottava Sinfonia: «La prego vivamente di accorciare con decisione il Finale così come è indicato; giacché sarebbe troppo lungo ed è destinato soltanto a tempi futuri e ad una cerchia di amici e conoscenti». Arrivato quasi a settant’anni, Bruckner era consapevole di essere andato ben oltre il linguaggio del suo tempo, ed è perciò di straordinario interesse sentire parlare quest’uomo, che dai suoi rapporti personali e dalla sua vita quotidiana veniva fuori come un fossile dell’Austria di Maria Teresa, quasi negli stessi termini usati da Arnold Schönberg trent’anni dopo.